LE COSE CHE SCRIVO IN QUESTO BLOG SONO FRUTTO DELLA MIA FANTASIA (BACATA).
QUALSIASI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ESISTENTI E' CAUSALE.
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giovedì 31 ottobre 2024

Questione di etimologia

 Aveva ragione Moretti, le parole sono importanti. 
Molti dicono di no, che le parole sono solo una convenzione, che l'importante è la sostanza. 
La sostanza, però, a volte deriva anche dalle parole che si usano per definirla, e l'etimologia stessa racconta molto più di quello che si pensi. Ci condiziona senza che ce ne rendiamo davvero conto, un po' come fa l'inconscio rispetto al cosciente, che ci governa mentre pensiamo di essere noi a decidere tutto a livello consapevole. 

Facciamo un esempio: a scuola, una volta c'era il Preside, adesso c'è il Dirigente Scolastico. 

A fare un concorso da Preside andrebbero le stesse persone che vanno a farne uno da Dirigente Scolastico?

Sembra che, sostanzialmente, si tratti sempre di quel primo inter pares che coordina e organizza l'attività di un collegio di docenti, ma l'etimologia la dice molto lunga:
  • Preside, infatti, deriva dal latino praeses -ĭdis ‘chi siede avanti, chi presiede’, der. di praesidēre ‘presiedere’ •sec. XIV.
  • Dirigente, invece, deriva dal latino dirigĕre, der. di regĕre ‘guidare, reggere’, col pref. dis- 1 •prima metà sec. XIV.
In sintesi, l'etimologia dice che:
  • il Preside presiede,
  •  il Dirigente dirige. 

domenica 20 novembre 2022

Bitta blue e il francese


C'è un sito che sfida la creatività di chi scrive con una serie di sfide-gioco.

Ora, i suoi creatori hanno ideato una metafora poetica, pensando a una barca, magari a vela, che parte, snodando la corda che la lega a una bitta blu. 

Cos'è una bitta? 
Eccola qua:
Il concetto è che una barca non possa stare sempre ormeggiata, seppur sicura, perché è fatta per andare in mare. E in mare incontra vincoli ed ostacoli, che sono rappresentati da temi, parole, limiti di tempo: 72 ore per scrivere un racconto con un tema, un argomento, tre parole da utilizzare che sono metaforicamente le boe.
Un esercizio creativo ed interessante.

A Cuneo si svolge oggi l'ultimo giorno di Scrittorincittà. Ai creatori del sito è venuto in mente di creare non uno ma due giochi a tema "Scrittorincittà". Non mi è dato di sapere se si tratti di cuneesi o di persone provenienti da qualche altro luogo, ma sono pronta a scommettere che non conoscano il francese, aspetto di per sé irrilevante per gestire un sito letterario italiano. 
Cuneo, però, si trova pericolosamente vicino al confine francese. Ciò fa sì che molte persone parlino bene questa lingua.
Si dà il caso che, analogamente a questa situazione, c'è poco da fare, ma se qualcuno che bazzica spesso la Francia legge "bitta", complice il fatto che non sia una parola molto diffusa in Italia, immediatamente avverte l'assonanza con il termine "bite". 
Ma non finisce qui: se qualcuno, oltre a bazzicare il francese, ricorda questa pubblicità, les jeux sont faits, rien ve va plus:


martedì 7 luglio 2020

In totale acronimato

In questo 2020 si è introdotto prepotentemente il termine "smart working", detto anche lavoro a distanza. 

A scuola non fai il lavoro a distanza, e nemmeno lo smart working, fai la DAD. 
Tutti fanno il lavoro a distanza, mica il LAD, invece a scuola c'è la DAD. 

Ma c'era da sospettarlo, che si sarebbe introdotto un nuovo acronimo anche per questo, dato che la scuola è acronimica da sempre, e uno che ci arriva non ci capisce davvero una mazza (uno che ci permane ne capisce mezza). 
Perché mica si fa il collegio docenti, si fa il CD (che poi viene ascoltato da molto pochi e molto poco), da non confondere con il CdC. Un alunno in difficoltà, se non è un HC (a volte, per semplicità, anche detto DA), è un BES (e sì, in effetti di BES se ne vedono in gran numero e non solo a scuola) o un DSA e bisogna fargli il PEI o il PDP, in certi anni anche il PDF (da consegnare spesso in PDF ma a volte anche in altri formati).

Prossimamente i dialoghi tra insegnanti in aula docenti si svilupperanno così:
Prof 1: C! CV?
Prof 2: C, TB, ET?
Prof 1: NCM, D. 

Anche perché, si sa, con la mascherina è meglio risparmiare il fiato. 



mercoledì 23 gennaio 2019

Caso umano


Ultimamente, non so bene perché, mi è capitato di sentire con altissima intensità il termine "caso umano".
Sarà una moda, sarò io che sono più attenta a questo vocabolo, ma prima lo sentivo assai di rado, forse mai, adesso tre o quattro volte al giorno.
La sonorità stessa del termine, in effetti, mi dà una fitta simile a quando hai i denti sensibili e di continuo ti arriva uno zefiro d'aria gelida sui denti perché è inverno, e, appunto, l'aria è gelida.
Infatti, di solito, l'accezione è negativa e soprattutto affrettata.
Lo sento sempre detto da persone che si riferiscono ad altri che o manco conoscono (e non vogliono certo conoscere) o conoscono da pochissimo (e non intendono approfondire).

Che poi, i termini in sé a me piacciono.

Caso è un avvenimento imprevisto, che mica vuol dire per forza brutto. Poi il caso è interessante perché non è prevedibile né premeditato. In più, se io penso alla parola "caso", per mia formazione, mi viene subito in mente il "caso aziendale", che era una delle cose più interessanti che abbia fatto all'università. Si guardavano accadimenti veri di un'azienda, si studiavano soluzioni. Era un momento creativo.

Umano è un aggettivo legato a noi come specie. Se poi ci si addentra nell'aspetto metaforico del termine, per umano di solito si intende ciò che ha calore, empatia, gentilezza, garbatezza. Insomma, cose belle.

Perché attaccando questi due termini si arriva a caso umano? A parte che non l'ho trovato in nessun dizionario (quindi deduco che sia stato coniato ultimamente), significherebbe "persona che suscita compassione o pietà", e a volte è usato in modo ironico, ma non troppo. 

Ma a me piace pensare
che caso umano sia una persona sorprendente,
che la sorpresa possa essere bella oltre che brutta o anche media,
e che ognuno sia, quindi, a modo suo, prima o poi, un caso umano. 

martedì 19 dicembre 2017

Creatività


Cosa vuol dire creare?
Creare vuol dire partire dal nulla e ottenere qualcosa.
Ma proprio dal nulla.

La creazione vera e propria è qualcosa di non umano, lo dice anche il dizionario:

1. Trarre, far nascere dal nulla, riferito spec. a Dio: Iddio creò il cielo e la terrasiamo stati creati a immagine e somiglianza della divinitàEll’è [la volontà di Dio] quel mare al qual tutto si move Ciò ch’ella cria o che natura face (Dante)

Quando gli uomini dicono di essere creativi, hanno quindi la presunzione di essere delle specie di dei demiurghi?

Alla fine hanno rimediato al problema aggiungendo la voce 2 nel dizionario. 

2. estens. a. Riferito all’uomo, produrre, costruire, fondare, comporre, o inventare, ideare, foggiare, e in genere far sorgere, dare vita a qualche cosa: cun’industriacnuovi sbocchi al commercioclavoro per la manodopera disoccupatacuna nuova modaun nuovo sistema di calcoloun nuovo vocabolo, ecc.; di opere dell’ingegno: cun capolavorouna vera opera d’arte; di cose astratte: non vi create troppe illusionicerca di non crearmi delle difficoltàsei buono solo a cimpicci. Poco com., procreare, generare, mettere al mondo: sosteneva che non ci si sposa soltanto per cdei figlib. Con soggetto di cosa, far nascere, formare, dare origine a qualche cosa: le sue parole avevano creato un certo imbarazzo fra i presentici vorrebbe un po’ di musica per cl’atmosfera; assol.: Sdegno il verso che suona e che non crea (Foscolo). Nell’intr. pron. crearsi, sorgere, formarsi, determinarsi: bisogna evitare il crearsi di uno stato di tensione tra i due paesis’è venuta così a creare una situazione paradossale.

L'hanno chiamata estensione, io la definirei più contrazione.
Dal dio all'uomo, la chiamano estensione.
Presuntuosi.
Scommetto che il dizionario l'hanno scritto uomini e non dei.

Gli uomini non sono assolutamente in grado di creare dal nulla. Al massimo creano dall'esistente, e che specie creazione è? E' semmai una creazione riproduttiva, nella migliore delle ipotesi espansiva di qualche nuce già esistente.

Forse la creazione più creativa e meno riproduttiva è quella di altri uomini (che poi si chiama invece beffardamente riproduzione), attività che non ci contraddistingue minimamente da tutti gli altri animali. E dovremmo vantarci di essere creativi in questo senso?

Se andiamo a cercare la nostra capacità creativa in ciò che ci distingue dal resto del regno animale, indaghiamo nelle produzioni intellettuali e artistiche.
Ma, per esempio, la musica nasce dalle note, la scrittura dalle lettere, tutte cose che esistono già e si combinano in modi non infiniti.
In più, anzi, in meno, di solito si prende un mix di cose che si sono viste sentite annusate toccate assaggiate, lo si frulla o shakera, e riproduce in un modo proprio, che però è sempre scaturigine di cose già dette pensate scritte da altri prima.

A me piace sempre scrivere nei miei CV che sono creativa.
Ma è perché sono presuntuosa e amante dell'utopia.

sabato 12 novembre 2016

Let's care about...

Ok, guardate bene quest'immagine.
Cosa vi suscita?
Quali sentimenti, impressioni, reazioni?
Quali parole vi vengono in mente osservandola?

Ieri si utilizzava il termine goliardico con gente d'oltralpe, e vai a spiegare come si dice "goliardico" in francese. Abbiamo guardato su internet, e la pagine più soddisfacente diceva che la traduzione di "goliardico" è "goliardico".
Siccome è risaputo quanto i francesi siano ferrati nelle lingue straniere, soprattutto l'inglese, che pronunciano con somma maestria, abbiamo guardato su wordreference, e alla fine è uscito che goliardico si dice CAREFREE.

Quanto ci sia di goliardico in un salvaslip, solo noi donne lo sappiamo.

mercoledì 6 luglio 2016

Specchi. D'acqua.


Uno viene buttato in uno stagno con acqua più o meno alta a seconda dei punti e fondo melmoso.
In questo lago limaccioso ci sono, in sospensione o in sedimentazione, un sacco di robe, belle, medie e anche brutte.

Uno, a starsene lì immerso, a guardare tutte ste robe sparse, a vedere sto fondale melmoso, che può fare?

Può galleggiare in superficie, a pancia in su o in giù.

A pancia in su non vede nient'altro che il cielo, poniamo che sia un cielo delle stelle fisse. Se ne sta lì con il naso in aria, con l'acqua a filo delle orecchie, e fissa fissamente le stelle fisse. Che noia. Poi magari, nella noia, uno dà due o tre bracciate, prende una craniata in un roccione spongiforme e puntuto che se ne sta, fisso pure lui, in mezzo allo stagno, e addio.

Se se ne sta a pancia sotto, magari con la maschera da snorkeling del Decathlon che manco il silenzio degli innocenti, vede tutto quello che succede, le robe sospese o quelle che si muovono su e giù, ma può interagire solo con quelle che gli arrivano a portata di mano o che può raggiungere nuotando al pelo della superficie. La visione intorno rimane limpida, al massimo si prende un colpo d'aria a starsene proprio sul filo dell'acqua con la schiena fuori e il venticello che lambisce i lombi sciacquettati dalle ondine, ma tutto sommato ci si accontenta.

Se uno è curioso, invece, magari fa un po' di iperventilazione, prende un bel respirone e va giù. Andando giù, scandaglia di più le profondità, può interagire con più robe sospese, e può addirittura andare a sfrugugliare quelle che sono piantate nella melma del fondale. Certo, quelle si vedono meno, ma si sa, gli oggetti pesanti tipo i metalli preziosi vanno sempre giù, si conficcano, si nascondono.
E così, se uno vuole prendere una delle robe conficcate, deve sbattersi, rischiare di soffocare se non ha preso un respiro abbastanza ossigenato, e soprattutto smuovere il limo che c'è sul fondo.
Smuovere il limo significa ritrovarsi in breve in un'acqua così torbida da non vedere più una mazza.
L'oggetto sepolto, se si riesce a prendere, si potrà solo toccare con mano, palpare per capire di che si tratti, con il rischio che possa anche essere qualcosa di pungente, mordente, tagliante, insomma pericoloso. E poi non si vede più la realtà come prima. Se ne ha davanti una nuova che è anch'essa realtà, una realtà che manco si vede. Non si sa più cosa ci sia intorno, come quando c'è la nebbia e si può ridipingere tutto con la propria immaginazione sulla tela bianca che propone la natura.
Può portarsi l'oggetto in superficie, aspettare che il torbido si sedimenti nuovamente, capire bene cosa si è recuperato, sempre che sia sradicabile. Se non è sradicabile e lo si vuole tenere, non si avrà altra scelta che starsene sul fondo, stringerlo finché  ossigeno non finisca, o confidare nei progettisti Decathlon che presto fabbricheranno una maschera da Hannibal Lecter con tubo snodabile di varie lunghezze fino a - 254 m.
In ogni caso, se si vuole indagare nel profondo non ci si può esimere dallo sviluppare un torbidore, quello che in piemontese si dice rendere l'acqua strrrrbula (con tante r e la u dieresata). E lo sturrrbulo, una volta sviluppato, mica se ne va facilmente. Crea un alone che andrà via solo se uno torna in superficie, non sfruguglia più il fondo nemmeno con movimenti inconsulti del corpo, se ne sta mummificato a galleggiare, con o senza l'oggetto prelevato, che sia o no conforme alle aspettative.
Certo, però, chi ha detto che vedere chiaramente quello che c'è nello stagno dall'alto sia l'opzione migliore?
Magari per qualcuno lo è;
per qualcun altro, invece,
è più interessante
indagare il fondo
disegnare sulla tela che il torbido gli offre,
scoprire ciò che è coperto,
diseppellire ciò che è sepolto,
con il rischio
di affondare nelle sabbie mobili limacciose
e lì rimaner(ci).

sabato 11 giugno 2016

Racconto un sacco di balle, ma non ti ho mai mentito


"Dimmi la verità", "In verità vi dico...", "Voglio sapere tutta la verità!", "Se saprò la verità potrò decidere".
Verità, che bella parola.

  1. verità
    ve·ri·tà/
    sostantivo femminile
    1. 1.
      Rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva.
      "controllare la v. di un'asserzione"
    2. 2.
      Affermazione di un contenuto ideale, accettato come basilare dal punto di vista religioso, etico, storico 
      "Dio è fondamento d'ogni v."

    3. Origine
    Lat. veritatem, der. di verus ‘vero’ •fine sec. XIII.

Bene,  partiamo dalla prima definizione. 
La verità è la rispondenza piena ed assoluta con la realtà effettiva. 
Sembra facile. 
E' chiaro che uno vuole saperla, questa verità, così conosce perfettamente la realtà ed è a posto. Ovvio che possa decidere meglio se sa. 

Già la seconda definizione lascia un po' di più con l'amaro in bocca. Ideale, hum. Ma ideale vuol dire difficilmente ricongiungibile con il reale, che è sempre corrotto da una serie tale di impicci che tanti scrittori si sono messi lì a scrivere romanzi interi basati su un ideale che viene poi definito utopia, che, per definizione, è tutto il contrario di realtà:

utopìa s. f. [dal nome fittizio di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia (1516), con le voci greche οὐ «non» e τόπος «luogo»; quindi «luogo che non esiste»]. – 1. Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). 2. estens. Ideale, speranza, progetto, aspirazione che non può avere attuazione: la perfetta uguaglianza fra gli uomini è un’u.la pace universale è sempre stata considerata un’u.queste sono utopie!

Già solo a leggere e incrociare le due definizioni, a uno viene un leggero mal di testa. 
Se la verità deve avere piena corrispondenza con la realtà, ma al tempo stesso è l'affermazione di un ideale che nella realtà non può esistere, ecco che iniziano i problemi che fanno sì che ci arrovelliamo su questa benedetta verità vita natural durante. 
E infatti anche gli scrittori che volevano scrivere romanzi utopici, alla fine ne hanno scritti molti di più distopici, dove questo ideale si deforma in un anti-ideale che si accartoccia su se stesso. Anzi, proprio l'utopia, che a qualcuno era sembrata ideale, finisce per diventare trappola da cui qualche personaggio, solitamente il più figo di tutti, fugge e crea un ideale suo personale. 
E in tutto ciò che succede? Che uno ha un ideale, un altro un altro. Ma se ideale vuol dire verità, come vuol dire anche contrario della verità, allora ognuno avrà una sua verità personale, che è al tempo stesso il contrario della verità. 
Ognuno dice la verità e al contempo mente a se stesso, dicendosi ogni cosa che si dice. 
E quando qualche assetato di verità gli pone una delle domande con cui inizia questo post, cosa può rispondergli? Quello che ha in testa, che pensa sia la verità, ma che è anche l'anti-verità, e che in più cambierà tra dieci secondi, o un giorno, o un anno, o mezza vita, o forse una vita intera, o magari sopravviverà alla morte?
Come si fa a essere sinceri?
Come si fa a essere bugiardi? 
Non si riesce manco volendo né a fare una cosa né a fare l'altra, forse perché la verità non esiste se non per un istante tremolante e confuso, forse perché non la si capisce, forse perché non la si riesce a raggiungere. 

Già se ci si trova davanti qualcosa di banale come la scelta di un cibo, e viene chiesto "Quale cibo preferisci?", si può rispondere quello che passa per la testa in quel momento, con quel livello di appetito, con lo stato di salute di quel momento, con quell'umore. Si è sinceri in un certo qual modo, ma poi, quando già la portata arriva e si inizia a mangiare, viene in mente che forse si sarebbe preferito altro, che quel cibo è un po' secchetto o acquoso o oleoso o stopposo, che, mano a mano che la sua utilità marginale diminuisce, di sto cibo non frega più quasi niente, che non è più preferito, e la verità di dieci minuti dopo è già diversa da quella di dieci minuti prima. 
Si è mentito senza volerlo, senza saperlo, senza poter fare altrimenti. 
Se poi quello che ci ha cucinato il presunto cibo preferito ci chiede come sia, sorridiamo, deglutiamo a fatica il boccone, che passa in gola con un attrito da far pensare di averla rivestita di velcro, abbozziamo un sorriso e rispondiamo "buonissimo". Un'altra menzogna. In undici minuti due menzogne. 

Figurarsi se vengono poste le domande su scritte su argomenti cangianti ed astratti come i sentimenti. Prima cosa, uno dovrebbe avere chiara a sé la risposta. 
Poi, i due interlocutori dovrebbero avere in mente la definizione di alcuni termini. Spesso, anche se ce l'hanno chiara, è diversa da quella dell'altro. 
Pensiamo a termini come "amicizia", "amore". Ognuno ha il suo concetto. 
In terzo luogo, serve una padronanza dell'espressione nella comune lingua che difficilmente entrambi gli interlocutori possiedono, a giudicare dalle valutazioni in italiano della popolazione scolastica, ma anche - e di più - dal risultato di qualche chiacchiera per strada o al bar o in macelleria, nonché da quello che tocca leggere nelle relazioni o sentire dalle bocche di presunti conoscitori della lingua italiana.
Anche se emittente e ricevente possiedono padronanza elevata, potrebbero decodificare il messaggio in modi diversi, del tutto soggettivi. 
Detto tutto ciò, che già da solo assicura una quasi totale fallimento dell'aspirazione alla verità, si aggiunge che, anche con la padronanza suprema della lingua, la chiarezza della definizione, la sintonia della comunicazione, certe astrazioni sono davvero complesse e difficili da riconoscere e definire. 
Ci si può provare in un dato istante, una data situazione.
Quasi sicuramente non ci si riuscirà. 
E se mai ci si riuscisse, 
molto cambierebbe in breve. 

Insomma, alla fine si dicono un sacco di balle anche quando non si è mai mentito. 

sabato 14 maggio 2016

Il mondo è una cipolla e a volte fa lacrimare gli occhi


Appurato che la libertà non esiste, ammettiamo che esista un certo margine di azione, che potremmo definire libero arbitrio.
Questo libero arbitrio è un margine che tutti possediamo, e che, essendo noi in tanti su questo pianeta, è, per ognuno, limitato da quello altrui, in un confinare di margini che appare un po' come il vestito carnevalesco di Arlecchino.
Abbiamo questa pezza di libero arbitrio, di cui noi siamo il fulcro, che si combina in modo da combaciare perfettamente con le pezze degli altri.
Non c'è soluzione di continuità tra le pezze. Ché poi significa che c'è continuità tra le suddette. Mi sono sempre chiesta perché volesse dire questo, poi la crusca mi ha spiegato che soluzione sta per interruzione, il "senza" contraddice l'interruzione e quindi i due termini si annullano a vicenda, e sarebbe tale e quale dire "con continuità", ma fa molto più figo dire "senza soluzione di continuità", anche se impegna e può facilmente essere soggetto a fraintendimenti, contorsione linguistica che tra l'altro è molto ricercata dalle persone che vogliono fare le fighe.
Ma torniamo alle pezze. Siamo lì con la nostra pezza bordata dai suoi confini, un po' come le cellule del tessuto di cipolla che ho messo come immagine di questo post. Poniamo che la cipolla sia la Terra e che la sua buccia siamo noi, incasellati nelle nostre prigioni di libero arbitrio. Prigioni perché hanno dei confini ben precisi, contro i quali cozziamo se vogliamo andare oltre. Ma fin lì, possiamo sguazzare come paperelle nello stagno a primavera.
I problemi nascono con il fatto che ognuno è uno, fatto a modo suo, e quindi ci sono paperelle che gestiscono in scioltezza il proprio stagno così com'è, altre che vanno a prendere la canna (dell'acqua, non del gas), la attaccano al rubinetto della loro autoconsiderazione e iniziano ad allagare lo stagno in modo che esondi, altre che invece se ne stanno lì in mezzo al loro laghetto contemplando l'esondare dell'acqua dell'esosa paperella vicina di stagno, e a volte si incantano pure a guardare queste meravigliose cascate altrui inondare la loro area, magari con tanto di pulviscolo acqueo che proietta arcobaleni illusori incorporei manipolatori. La paperella incantata si ritroverà in uno stagnino piccolo piccolo (fino ad avvicinarsi inconsapevolmente alla canna, questa volta del gas), quella esosa amplierà il proprio, ma non si sfuggirà comunque alla legge del confine.
Ampliamento del confine mio, ristrettezza del confine tuo.
Condividere la buccia di cipolla stagnante in modo equo è una marxista illusione.
La gente è avida.
Non importa cosa possa farsene, del libero arbitrio, né che valore abbia.
L'importante è averlo.
Poi si vedrà.
Se per ottenerlo si deve schiacciare quello di qualcun altro, qualcuno che magari è meno esoso pretenzioso invasivo prepotente, fino a vederlo compresso nella sua pezza come un piumino Ikea nel sacchetto sottovuoto a fine stagione, tanto meglio.
Si ottiene un bel libero dittatoriale arbitrio.
Due caratteristiche in una.
Che poi,
con il proliferare degli stagni a primavera,
con l'avvicinarsi dell'estate,
con il comprimersi del piumone sottovuoto,
du gust is megl che uan.

venerdì 15 aprile 2016

Umiliante post umile


Beati gli umili perché succederà loro qualcosa di bello che ora non ricordo.
Lo diceva uno della Trinità divina cattolica, non so più bene chi dei tre, perché dalle mie ecclesistiche frequentazioni è passato un po' di tempo e non sono ferratissima in Teologia, ma mi pare comunque di ricordare che fossero tutti e tre uno solo, quindi come citazione direi che va bene.
Il fatto è che quando sentivo ste parole a messa o le leggevo su qualche libretto che mi veniva propinato al catechismo mi dicevo che non fosse una grande idea, che ad essere umili non si arriva da nessuna parte.
Poi, con il passare del tempo, l'imbiancare dei capelli, l'inflaccidirsi della pelle, ho iniziato a pensare che invece quello della Trinità ne sapesse una più del diavolo.

Infatti, se uno ci pensa, umile è diverso da umiliato.

L'umile è colui che esercita umiltà, in modo che definirei riflessivo. Umile è chi guarda se stesso senza presunzione e preconcetti, cerca di capire in primis se ha sbagliato, e poi se essere orgogliosi sia veramente la soluzione più efficiente ed efficace. Se uno decide di umiliarsi, lo fa con consapevolezza. Se uno decide di umiliarsi, già non si sente così minacciato da ciò che sta facendo.
E' un po' come quando si prende una storta. Si può reagire accompagnandola, oppure opponendovi resistenza orgogliosa. Nel primo caso non ci si fa tantissimo male, quindi si reagisce in modo efficiente ed efficace. Nel secondo, si rischia di farsi malissimo e di prendersi una distorsione o peggio di spaccarsi i legamenti, con conseguente lievitazione della caviglia fino ad avere un palloncino al posto del'articolazione. Un palloncino gonfiato.
L'umile consapevole è uno che capisce che è più strategico piegarsi come una canna piuttosto che stare rigidi come una quercia a farsi spezzare i rami o peggio il tronco dall'uragano. Tanto sa che poi si ridrizzerà.

L'umiliato, invece, è colui che subisce un'umiliazione. Qui non c'è nulla di riflessivo, c'è qualcuno che compie un'azione verso qualcun altro. E l'azione è quella di affossamento.
Lì sì che è brutto.
A volte.
Non sempre, però.

Se l'umiliato riesce ad assecondare l'umiliante, poi può riprenderlo e ritorcere la sua azione contro di lui. Un po' come insegnano al corso di autodifesa. Prendi l'umiliante, lo spiazzi accompagnando l'attacco, e poi gli sbatti addosso una bella umiltà potente ed efficace. Sarà facile vederlo stramazzare al suolo.
Umile umiliazione, come quando a calcio ti arriva addosso un energumeno di centicinquanta chili e affonda con tutta la sua possenza sulla tua caviglia. Se opponi resistenza sei fritto. Ti squarcia caviglia crociato menisco e chi più ne ha più ne metta. Immobilità nervoso ortopedici incazzatura operazioni frustrazione riabilitazione appallamento. Grande umiliazione con umilianti ripercussioni sull'orgoglio oppositivo con cui si era deciso che una caviglia fatta d'ossa tendini sangue e carne potesse resistere all'impeto di un quintale e mezzo tacchettodotato.

Nel film "Mister Chocolat", il protagonista è un esempio di umiliata umiltà, che di solito non dovrebbe esistere, perché alla fin fine l'umiltà non è mai umiliata, anzi è una roba da figo, da persona che non si caga in mano a mollare un attimo le redini e a perdere il controllo perché sa di avere la padronanza di poterlo mantenere, di recuperarlo in volo o al balzo dopo un po'.
E' una roba da chi, quando si accorge che sta sbagliando o ha sbagliato, corregge il tiro dopo aver detto "Ok, sto sbagliando/ho sbagliato".
Poi risbaglia, e lo ricapisce, ririsbaglia e lo riricapisce ancora, avanti così.
Alla fine muore.
Va beh, finale triste, ma mica possono vivere tutti sempre felici e contenti, e per sempre.
Sarebbe pure noioso.
Tornando al nostro Chocolat, lui non voleva essere umiliato, eppure all'inizio accettava di esserlo, per gioco. Teneva presente che scena è una finzione. E all'inizio era furbescamente umile.
Fare il selvaggio mi fa guadagnare? E io lo faccio.
Fare quello che riceve calci nel sedere mi fa guadagnare? E io lo faccio.
Poi il tempo passa (e i capelli imbiancano, e la pelle si inflaccidisce, eccetera eccetera) e uno perde l'abilità di prendersi un po' in giro, bonariamente.
Uno perde la fanciullesca capacità di ridere di se stesso e di vedersi dall'alto, con leggerezza.
Tutto diventa pesante, anche la finzione, anche ciò che ci dà da vivere, e da vivere alla grande.
Uno si arrovella su principi che orgogliosamente porta avanti diventando cieco a ciò che è meglio, a ciò che gli conviene, e a volte perfino a ciò che è.
Con pesantezza si gioca tutto, ma la pesantezza, si sa,
è difficile da sostenere,
 e infatti non si sostiene,
e si precipita giù trascinati dal proprio orgoglio,
dalla propria pesantezza,
giù fino alla rovina definitiva.
L'umiliata umiltà di Chocolat è un ossimoro in termini, fa cadere dalle stelle non riconosciute alle stalle, ben identificate quando ormai è troppo tardi.
Meglio umiliarsi.
E' meno umiliante.

venerdì 25 marzo 2016

"Sono pazza!"


Quando (e se, ma poi perché?) si guardano spettacoli televisivi tipo i casting per Veline, Uomini e donne, Miss Italia, Non è la rai (per i lettori stagionati), le persone che si presentano quasi sempre dicono "Io sono pazza!" o "Io sono pazzo!".
Non parliamo delle presentazioni su internet: sono pazza, pazzerella, vivo una vita pazza, eccetera.
Insomma, alla fine sono tutti pazzi.
E lo dicono con un sorrisone goduto, come per dire che pazzo è bello.

Ma pazzo, cari miei, direi loro, deriva dal latino patiens, che significa colui che patisce. Cos'abbia da ridere colui che patisce, a meno che non si tratti di un masochista, proprio non lo so. Ogni accezione, figurata o no, riconduce a condizioni che non danno spazio a nessuna risata, a meno che non si tratti di quella isterica legata alla follia.

Pazzo è colui che soffre,
colui che sta fuori di sé,
e che quindi non riesce a leggere dentro si sé,
pazzo è uno che manco ci prova,
a leggere dentro di sé,
perché non sa da che parte stia girato.
Insomma,
essere pazzi è una roba brutta.
Si sta male.

Ditelo, alle veline, alle Miss Italia, alle shampiste, ai tronisti.
Non sono pazzi.
Sono altro.

lunedì 11 gennaio 2016

Identità linguistico-cittadine


In Marocco le lingue ufficiali sono l'arabo e il tamazight, che è il berbero, strano mix di francese, arabo e piemontese (secondo la mia modesta opinione).

E' però risaputo che gran parte dei marocchini parli francese.
Talmente risaputo che se uno va in Marocco e si rivolge a qualcuno in francese gli viene risposto invariabilmente in inglese o in arabo. Insistendo molto, poi, ci si sente rispondere in francese. Chissà da dove deriva questo essere restii a confessare di conoscere questa lingua, pertanto ritenuta elegante e raffinata.

Andiamo ad analizzarne le ragioni partendo da una delle famose città imperiali, dove il fenomeno di negazione del francese è più massiccio.

Fès.

La pronuncia è identica a quella del francese fesse, che sta a indicare quelle parti posteriori su cui ci si siede e che in palestra vengono definite natiche dagli istruttori che vorrebbero sempre farle tonificare ai poveri clienti (facendo fare loro un culo così a furia di esercizi, soprattutto in questo periodo post-natalizio).
Ora, è ovvio che se quasi tutti a Fès conoscessero il francese non avrebbero piacere di vivere in una città il cui nome ricorda quello delle chiappe. E' un po' come essere clienti di in un supermercato che si chiama cojonazzo. E così, si fregiano di parlare inglese, dove il nome ha assonanza con face, che vuol dire faccia.
Sotto sotto, però, inconfessabilmente, molti sanno anche il francese, ma non amano rivelarlo, per evitare che si palesi l'identità Fès-fesse-face, da cui si potrebbe dedurre che abbiano la face come le fesse.

mercoledì 16 settembre 2015

Normalità?


Quando sei in una classe e devi insegnare, ti ritrovi in un posto dove ci sono:

  • 7 o 8 dsa (personaggi con disturbi specifici dell'apprendimento), ognuno con il suo trattamento personalizzato, perché non sono nella norma;
  • 3 o 4 alunni con disabilità, che sono abili ma diversamente, e allora bisogna far sfruttare loro le diverse abilità con diversi trattamenti;
  • 7 o 8 bes (bisogni educativi speciali), che, appunto abbisognano di educazione speciale. 
Rimangono 2 o 3 alunni NORMALI. 

La normalità sta ossimoricamente diventando una rarità. 










...eppure...da sfocati ricordi, scolastici anch'essi,...


normalità
nor·ma·li·tà/
sostantivo femminile
  1. Condizione riconducibile alla consuetudine o alla generalità, interpretata come ‘regolarità’ o anche ‘ordine’
    "rientrare nella n."

lunedì 7 settembre 2015

Folli, pazzi e matti


Un pazzo è affetto da pazzia.
Un folle da follia.
Un matto da cosa?
Mattanza? No...la mattanza è un antico, tradizionale metodo di pesca del tonno rosso, sviluppato nelle tonnare.
Mattìa? No, Mattìa è un nome da maschio, rare volte anche da femmina.
Mattitudine? No,mattitudine non esiste proprio.
Un matto è affetto da cose diverse dalla follia e anche dalla pazzia, robe indefinibili, robe da pazzi, anzi, no, da folli, anzi no, da matti.

venerdì 24 aprile 2015

Portar via


Si suol sentire di persone che dicono ad altre persone "Portami via". E quest'idea dell'essere portate via pare una figata pazzesca. Si pensi però ad altre accezioni del termine, tipo "c'è un vento che porta via", oppure "pizza da portare via". Sono entrambe piuttosto negative, la prima per il fastidio, la seconda per la gommosità. E' anche vero che c'è una differenza tra l'essere portati via come oggetti e il portare via come soggetti. Rimane però il fatto che, se si tratta di un rapporto tra due persone, ce n'è sempre una che agisce e l'altra che subisce. E subire passivamente non è che sia il massimo della vita.
Allora ha torto Vasco quando dice "Ti prendo e ti porto via", anche se sembra una cosa bella, e ha ragione Conte quando canta "Vieni via con me".
Bisogna però ricordare che in italiano si può venire arrivando o stando.
Ne sa qualcosa Jack Savoretti, che al suo concerto a Torino di ieri sera se n'è uscito con un "Vengo un po' troppo, qui in Italia". Poi un po' di silenzio, per essere sicuri che tutti avessero capito la gaffe, per finire con un "Ecco cosa succede a essere inglesi e cercare di parlare italiano".

giovedì 9 aprile 2015

Ristorante "Clinica leggera"



"Che strano nome questo ristorante" ho pensato quando ci sono passata davanti.
Ma a chi può essere venuto in mente di chiamare così un ristorante?
Ho iniziato a rimuginare sulla scaturigine del nome e sulla sua attrattività.
Ok, ci sono le locande leggere, quelle allegate ai negozi leggeri, che vanno tanto di moda. Sicuramente hanno voluto seguire l'onda. Ormai le persone di una certa classe, i radical chic, sono tutti perennemente parcheggiati in posti "leggeri". Prendono 3 grammi di quinoa dei campi coltivati da contadini italiani arando con le unghie in Guinea Bissau, 5 microgranuli di dentrifricio bio fatto a mano con la macina ligure di Triora, 9 millilitri di latte di asina biologica delle alture papuasiche nuove guineane.
Poi vanno al ristorante a mangiare cibo vegan-vegetarian-bio-just in time-ayurvedico.
Sì, effettivamente la parola "leggera" dentro il nome del ristorante ci sta.
Il che poi si attacca anche all'altro termine utilizzato: clinica. Il termine è un po' delicato, perché potrebbe far pensare a qualcosa di medico e far storcere il naso ai radical chic ipocondriaci, ma in seconda analisi può far pensare all'altra accezione di leggerezza: non senza peso da trasportare esternamente al proprio corpo, ma senza peso-ciccia interno allo stesso. Chi mangia alla clinica leggera diventa leggero pure lui, cioè magro e in forma, il che è perfettamente il linea con il cliente radical-chic-vegan-vegetarian-bio e chi più ne ha più ne metta. Non si può non pensare a idilliache situazioni di italica memoria che faranno sicuramente affluire al ristorante "Clinica leggera" a frotte.

Tutta soddisfatta, faccio una sosta per leggere che menù propone.
Affisso vicino alla porta leggo: "Menù del ristorante Cinciallegra".

giovedì 9 ottobre 2014

Usare e non sapere



C'è un termine abusato di cui potrei dire che, dopo sondaggio poco significativo tra gli amici e tra me e me, quasi nessuno sa in significato.

Il termine è MATURITA'.

Non parlo tanto di quella applicata alla frutta, che è chiaro che tra acerba e marcia è matura.
Forse parlo un po' del superamento dell'esame alla fine delle superiori, ché se tutti quelli che lo passano fossero veramente maturi, probabilmente avremmo un plateau di trentenni bell'e che marci.
Soprattutto, però, parlo di quella maturità intangibile, quella che tutti dovremmo avere, quella che molti sono accusati di non avere da persone a cui, confidente, ho chiesto cosa sia questa tanto decantata maturità.
Ecco, queste persone ferneticavano frasi accozzate, imbarazzate.
Ecco, queste persone che accusano molti di non essere maturi alla fine manco sanno cosa voglia dire esserlo.
E' come dire a qualcuno "tu non sei abintervo", e manco sapere cosa voglia dire abintervo. Una vera vegogna.

Alle mie domande su cosa possa essere la maturità, ho ricevuto risposte di vario tipo.

La maturità sarebbe evitare di fare cose tipo prendere e andare in India in pattini a rotelle, o comunque fare cose che sarebbero più tipiche di un ragazzino che di un adulto. Prima cosa, ciò presumerebbe che si sia maturi solo da adulti (sarà così?), seconda cosa che  andare in India in pattini a rotelle sia una cosa da immaturi tout court. Io a questo evitamento sostituirei i termini "dotato di spirito di autoconservazione", "prudente", e, a dirla tutta, se uno invece di andare in India in pattini a rotelle va tutti gli anni una settimana a Loano in una casa in affitto spiaggiandosi sotto l'ombrellone con "La Stampa" sotto un'ascella,  azzarderei anche dei "noioso", "ripetitivo", "privo di spirito d'avventura".

La maturità sarebbe evitare di entusiasmarsi tanto delle cose e rimanere tiepidi davanti a tutto affrontandolo con razionalità. Ma allora Pascoli era una gran cialtrone, quando diceva di conservare il fanciullino che c'è in noi? Perchè mai essere maturi vorrebbe dire essere privi di slanci? Io questo stato lo definirei, appunto, "piattume", "mancanza di slancio", nuovamente "noia", e soprattutto "assenza di vita vera".

Qualcuno dice che maturità sia vestirsi in un certo modo, dire le cose giuste al momento giusto, fare le cose giuste al momento giusto. Se hai i capelli lunghi sei immaturo. Se li hai corti sei maturo. Se giri come un barbone sei immaturo. Se ti vesti bene sei maturo. Se hai un lavoro serio (impiegato, avvocato, medico, dirigente,...) sei maturo, se hai lavori saltuari, strani, cangianti sei immaturo. E avanti così. Cavolo, se fosse ancora vivo Gaber, gli proporrei una bella canzone sul tema.
Se uno raggiunge dei traguardi socialmente fissati da convenzioni culturali è maturo o rientra semplicemente nella logica del sistema?

L'etimologia del termine maturo si può far derivare da un sacco di termini, soprattutto riferibili alla frutta: il provenzale madurs, l'antico francese mëur che poi diventa mür, il portoghese maduro. Dal latino, parrebbe che non si capisca bene da cosa derivi (e già questo la dice lunga). Si suppone da due termini: maturus, che vuol dire vecchio, e matutinus, che vuol dire mattino. Ma perchè? Allora uno sarebbe maturo prima, poi qualcos'altro (tipo incasinato, confuso, proprio quando servirebbe non esserlo?), e poi da vecchio di nuovo maturo? Pure quelli del dizionario non si spiegavano questa antisimmetria etimologica rispetto al processo lampante che la frutta offre a ogni individuo. Alla fine hanno fatto che dire che la radice del tutto è mâ-, che significa misurazione. Più convincenti, almeno per assonanza, anche i termini latino metiri e greco metron, che si riferiscono tutti e due al misurare o alla misura.
Quindi la maturazione è una roba che si misura, anzi è la misura. Mi viene da pensare che maturità non sia un fatto da misurare a una certa età, del tipo che a 30/40 anni si è maturi, prima si è immaturi e dopo si è marci. Potrebbe forse essere un rispettare certi traguardi in base all'età che si ha, del tipo che a 3 anni essere maturi è non cagarsi e pisciarsi più addosso nutrirsi rugnare limitatamente, a 10 saper leggere scrivere far di conto e non rompere troppo le palle ai genitori ma manco ingnorarli di brutto. Crescendo, i parametri da rispettare aumentano e allora lì si spiega perchè questa maturità potrebbe esserci prima, dopo, ma non durante. Si sa che la vita è una parabola con la pancia rivolta verso l'alto, prima  sali, poi scendi.


Da vecchio sei come da bambino. Ti sono richieste poche cose, generalmente le stesse: non cagarsi e pisciarsi addosso, ubbidire, non brontolare troppo...e allora magari (raramente) ce la fai a raggiungerle. In mezzo te ne sono richieste talmente tante (tagliarsi i capelli se si è uomo e si ha la fortuna di averli ancora, avere un bel lavoro, non fare cose strane tipo sport strani viaggi strani non frequentare posti inadatti alle persone mature (cioè?) non frequentare persone immature ecc ecc ecc).  Ma chi è che te le richiede? Chi è che stabilisce quando rispettare questi step? La società.


E allora, alla fine, uno potrebbe dire: ma perchè tutto ciò? In questo perdo di spontaneità, vivacità, gioia di vivere. Mi sento tarpato da tutti questi limiti. Forse, potrebbe dire, maturità vuol dire rispettare se stessi e gli altri. Evitare di far star male le persone con il proprio comportamento, il che presume una certa empatia con loro e non il seguire un rigido manuale. Ma questo è maturità? No, questo è "rispetto". Bello, necessario e soprattutto molto più chiaro.

Insomma, per ogni comportamento c'è un termine più idoneo, e questa grande, irraggiungibile maturità è così difficile da definire che quasi quasi la lascerei alla frutta.

giovedì 9 gennaio 2014

Di default

La cameriera al pub si avvicina al tavolo per raccogliere le ordinazioni.
Le viene chiesto se le patatine fritte, che campeggiano su tutti i tavoli, siano DI DEFAULT.
La cameriera strabuzza tanto d'occhi, e chiede cosa significhi la parola arcana.
Le viene spiegato che vuol dire che le patatine sono messe su ogni tavolo, incluse nel servizio.
Lei si ringalluzzisce tutta, e, da quel momento,
a ogni avventore comunica che le patatine sono DI DEFAULT.

Si fa più lezione nei pub che a scuola.

venerdì 12 aprile 2013

Meno male

"Meno male!", e si tira un sospiro di sollievo.
Ma perché mai si deve tirare un sospiro di sollievo dicendo codeste due parole?
A parte che sono entrambe parole negative, meno e soprattutto male, ma poi che sollievo si dovrebbe avere nel trovare che il male sia meno? Vuol dire che non c'è tanto male, ma un po'.
Al massimo uno sta meglio di uno che sta peggio.
Ma sempre male sta.
In verità la frase è usata pure in senso positivo del tutto, il che mi è veramente incomprensibile.
E' pur vero, d'altro canto, che è meglio così che se si fosse stati meglio quando si stava peggio.