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martedì 21 giugno 2022

Michael Willemsen: del non fare, del socializzare e di molto altro

Martedì scorso non ho incontrato Michael Willemsen e gli ho fatto un'intervista.

E chi è Michael Willemsen, vi chiederete voi? Lo sanno in pochi, quelli che hanno letto qualche articolo o sono passati da Prato Gaudino, un paesino abbandonato sulle colline tra Cervasca e Vignolo, dove lui vive in una baita in legno e fa una vita da relativo eremita, anche perché questo termine, secondo me, glielo hanno attribuito di più gli altri che lui stesso. C'è anche l'aggettivo che lo accompagna, iperconnesso. A me sembra connesso e basta: con internet (lento) e con gli altri (non tutti, quelli che decide lui). 
Dato che su "La Stampa" di Cuneo domani verrà pubblicata la versione bignami di questa intervista, nata tra i meandri di Facebook messenger e delle mail, solo per voi, miei cari residui lettori di questo blog, ecco la versione integrale. 

Come funzionano le sue merende sinoire, feste, incontri? Come si conciliano con la vita eremitica? 

Organizzo momenti di incontro perché è bello rivedere le persone che nei mesi precedenti sono passate dalla Baita Castagné. Con altri purtroppo si è perso il contatto. Rendere questi incontri pubblici, aperti a tutti, per ora è impossibile. Manca semplicemente lo spazio. Poi c'è sempre qualche purista dello spirito che vede una contraddizione con il mio ruolo di eremita sul palcoscenico del mondo. Dovrei adeguarmi di più al copione, invece di incitare alla convivialità tra montanari. C’è l’idea che la solitudine sia in qualche modo legata a una misantropia asociale. Ma io sono fiammingo, perbacco, un figlio gioviale di Bruegel!  Non ho nessuna voglia di cominciare a mangiare radici invece di pizza, o fare penitenza nei boschi strascicando le mie ginocchia sul muschio o sui sassi. La vita eremitica per me è una forma di coltivazione del silenzio interiore, ma anche uno strumento per uscire ogni tanto dalla comfort zone. La condizione per trasmettere qualcosa di positivo agli altri si radica nella capacità di stare bene con sé stessi, da soli, ritirati dal chiasso, ma se non si esce dall'ombra, la propria vita è sprecata e ci si inaridisce.

Il mio poeta preferito, Olav H. Hauge, l'eremita norvegese di Ulvik, su questo equilibrio ha scritto versi stupendi in nynorsk, la lingua della regione Hardanger. In italiano si potrebbero tradurre così :

 "La solitudine è dolce

fin quando la strada di ritorno

agli altri

rimane aperta.

Non si brilla

solo per se stessi".

Cosa l'ha portata a cambiare vita? È stato un processo o un'epifania?

 Si è trattato di un lungo processo nel quale non mi sembra di avere scelto o deciso più di tanto. Mi sembra che tutto sia avvenuto spontaneamente. È molto difficile capire però fino a che punto l'inconscio mi ha guidato, o quanto l'educazione abbia avuto il suo peso. Sicuramente ho avuto un'infanzia molto felice. Mi risulta facile fidarmi della vita, affidarmi alla misteriosa trama cosmica che sento sostenermi a ogni passo. Soprattutto quando mi trovo in mezzo alla natura, la fiducia è totale. A volte penso che non mi sono mai sforzato granché. Che non ho desiderato mai tante cose. Direi che ho viaggiato come un naufrago seduto su un relitto. Mi lascio trasportare dalle correnti. Accolgo gli eventi, senza opporre troppa resistenza. Sento che nel mio percorso, libero arbitrio e volontà hanno giocato solo un ruolo secondario. Le cose più belle mi sono sempre accadute all'improvviso. Oggi, quando guardo indietro, ricordo come, già da piccolo, avevo intuito oscuramente che dietro alla mia piccola vita fosse all'opera una sorta di forza superiore, che non ho mai saputo come definire. È stata lei a orientare molte delle mie decisioni. Altre persone non hanno la stessa fortuna, forse perché chiedono troppo invece di diminuire le aspettative. Imbrigliare il divenire con preconcetti che alla fine si rivela una forzatura: ti fa sbagliare strada ai bivi cruciali. Sarebbe più efficace sedersi, non fare nulla, ascoltare di più il paesaggio sonoro del bosco. Credo sia la via più diretta per tornare in se stessi. Ma per questo esercizio contemplativo  probabilmente ci vogliono una predisposizione caratteriale di partenza o un'educazione sin da piccoli, non saprei.

Quali sono state le "cose" che ha portato qui in montagna e a cui non rinuncerebbe mai (se ce ne sono)?

 L'abbonamento Netflix, ovviamente. No, scherzo. Qui entriamo in un campo minato, toccando questioni di cui probabilmente sarebbe meglio tacere. Perché io posso rinunciare a quasi tutto, e l'ho fatto più volte in vita mia. Sono decenni ormai che mi accompagna una domanda insistente: cosa sopravvive della propria serenità, libertà o felicità quando uno taglia il cordone ombelicale con tutto ciò che ritiene indispensabile? Amore, amicizia, famiglia, salute, lavoro, denaro, casa? Cosa resta di essenziale del proprio io quando tutti questi appigli sono compromessi, nell'estrema vulnerabilità della perdita di quasi tutto? Per trovare la riposta a questa domanda, per anni ho tagliato tutti i ponti immaginabili, ho vissuto in un isolamento estremo. Non avevo più nessuno a cui rivolgermi in caso di bisogno, né familiare né amico. È stata un’esperienza crudele. Ecco perché la domanda sulla rinuncia è una specie di tabù in un paese dove la famiglia comunque è sacra, anche quando magari ti distrugge con i suoi ricatti emozionali. Eppure sono convinto che non possa esistere una vera libertà o felicità senza una grande rinuncia. Non tutti i processi si svolgono in modo graduale in natura. A un certo punto del viaggio, se manca ciò che Nietzsche chiama la "grande separazione", l'allontanarsi da ogni valore e riferimento familiare e rassicurante, è difficile abbracciare davvero il proprio destino. In questo senso, è vero, serve anche un momento di epifania, un atto fuori da ogni logica, istintivo, in cui si manda a quel paese proprio ciò che è vicino. In cui si butta via tanta zavorra morale, a volte anche le chiavi di casa, e semplicemente si pronuncia il "Weg von hier!"", il "via da qui!" come si legge nei diari di Kafka. Ma da lì a lasciarlo tutto davvero, nella pratica, ce ne vuole. Non consiglio a nessuno il deserto, a meno che non si senta un richiamo interiore fortissimo. Forse è meglio continuare come prima, cercando di districare al meglio la matassa di ogni giorno, che tagliare il nodo gordiano senza la forza per assumerne le conseguenze.

 Perché non ha scelto di fare l'Eremita sconnesso?

 Proprio per via di tutti questi anni di isolamento. Per me, abitare in questa borgata come unico residente, in realtà, rappresenta un ritorno alla collettività. Oggi c'è chi mi percepisce come eremita, ma dimentica di precisare che non mi sono trasferito a Pragudin a partire da una vita sociale fiorente in una città: sono arrivato qui uscendo da tanti anni nomadi a vagare negli sperduti deserti gialli e verdi del mondo. Adesso anche d'inverno mi capita di vedere qualche persona ogni settimana. Prima non incrociavo nessuno per mesi, tanto da disimparare ad articolare addirittura le parole. Oggi abito a duecento metri dall'asfalto, prima a quattrocento chilometri da ogni forma di civiltà. L'isolamento e il senso di vulnerabilità sono quindi molto relativi. Un milanese tende a vedermi come un grande eremita. Per un canadese o un norvegese della taiga invece, questa borgata è un posto socialmente frenetico, affollatissimo!

 Non le manca viaggiare, da quello che ho capito: considera questo un porto d'approdo e per il momento va bene così?

 Pragudin è la mia Itaca, su questo ho pochi dubbi. Ma l'avvenire è sempre aperto. Omero non ci dice se Ulisse soffrisse di irrequietezza migratoria dopo qualche anno stanziale nella sua isola. Forse è ripartito, forse ha preferito invecchiare vicino a Penelope nel focolare. Può anche darsi che un giorno scoppi di nuovo la mia voglia di viaggiare. Per il momento, tuttavia, non riesco ad allontanarmi fisicamente da questa borgata. Sono diventato iper-sedentario. Anche perché qui ho scoperto due sensazioni di cui ignoravo tutto: i ricordi e la nostalgia. Nel movimento nomade non mi ero mai voltato indietro, a guardare la strada percorsa. Adesso viaggio attraverso la memoria, le parole, la scrittura. È un’avventura altrettanto intensa.

Come vede il futuro? Ci pensa o no?

 Fatico a immaginare cosa ci sia a due o tre mesi di distanza. Non sono mai stato bravo nelle astrazioni. Ma non importa. Nella mia esperienza, i programmi sono abbastanza inutili, "plans are born to fail" dicono in inglese. Spesso, i vaticini, a posteriori, fanno acqua da ogni parte, soprattutto le previsioni più logiche ed evidenti. La mia percezione è rivolta al passato. Ogni sera, al tramonto, contemplo l'ombra che a poco a poco cancella la geometria del paesaggio in pianura. Case, paesi, fabbriche, strade, chiese. Tutto svanisce come in un sogno. Domani non esiste. Certo, tante persone si danno da fare con la speranza di raggiungere qualcosa. Non è raro essere assetati di desiderio di raggiungere un obiettivo visibile. Non passa giorno in cui non si cerchi di abbindolare il membro di una società con la pretesa linearità di ciò che lo attende. Si inventano continuamente falsi scenari. Ma a cosa serve questa miriade di previsioni? A rassicurare, vendere pubblicità online, distrarre meglio del presente. Ho la sensazione che spesso i media si ostinino a  guardare nella direzione sbagliata. Una poesia di Costantino Kavafis lo descrive bene: "... non da quello dobbiamo guardarci: i segni (da noi male intesi, male interpretati) erano falsi. Un'altra catastrofe, nemmeno adombrata, improvvisa violenta ci sta sopra e disarmati - troppo tardi ormai - a furia ci trascina." La pandemia ne è un esempio lampante. Questo continuo sovra interpretare i segni del futuro ci trae quasi sempre in errore. Pianificare il domani, come impegnarsi a piegare la realtà al proprio volere, mi sembra poco saggio. In fondo noi controlliamo molto meno la nostra vita di ciò che ci piaccia credere. Meglio quindi affrontare i fatti come si presentano, visto la probabilità piuttosto alta che le cose non vadano comunque come previsto. Conviene anche rallegrarsene addirittura, perché, paradossalmente, è proprio l'incertezza del domani che rende l'avventura terrena così affascinante.

 Ha cambiato passioni nel cambio vita? O si sono evolute quelle che già aveva?

 Certo, ne ho cambiate parecchie. Oggi non ascolto più solo i Beatles o i Pink Floyd e non passo le mie giornate a giocare a pallacanestro. Per fortuna si cambia. Ma è anche vero che con l'età si riscoprono le passioni dell'infanzia. Mi sono rimesso a collezionare fossili e adesso voglio fare da figurante in una festa medievale che stiamo organizzando nella Baita Castagné. In fondo è stata sempre la mia maggiore ambizione: diventare un cavaliere della tavola rotonda! Sono nato solo mille anni in ritardo. 

 Quali sono i personaggi che più ammira? E come l'hanno ispirata?

 Negli anni si incontrano tanti personaggi, ottimi compagni di strada, maestri. Mi ispirano ancora oggi Spinoza e Montaigne, ma anche Stephen Curry o Ricky Gervais! Oggi però è diventato difficile ammirare qualcuno in particolare. Si scopre infatti, come ben diceva Tiziano Terzani, che i grandi uomini non esistono. Esistono solo uomini, con i loro pregi e difetti. E vorrei aggiungere che dei veri maestri di vita forse non è opportuno parlare, per pudore. Spesso il loro pensiero è talmente lontano dal senso comune che dopo migliaia di anni se ne stanno ancora seduti nell'ombra, discreti sotto qualche albero centenario. Chi ha capito la saggezza di un Laozi? Chi, tra coloro che citano a destra e sinistra il simpatico Thoreau, ascolta davvero quello che ha da dire? "Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, il fratello e la sorella, la moglie il figlio e gli amici, e a mai più rivederli, se hai pagato i tuoi debiti e stilato il testamento, se hai sistemato tutte le cose e sei un uomo libero, allora sei pronto per una passeggiata". Recepire questa saggezza, che di nuovo parla di una separazione radicale, di un distacco vitale, è scioccante per la maggior parte delle persone. Ciò che mi interessa del Principe Gautama sono i suoi lunghi anni vissuti da solo nella foresta, non quello che viene dopo, che è solo una conseguenza. Lasciarsi ispirare da questi personaggi significa rovesciare tutto ciò che normalmente procura sollievo alle nostre vite. E quindi di nuovo, di ciò di cui non si può parlare forse si dovrebbe tacere. Questo lo sussurrava al vento un altro eremita, nella sua capanna sul suo fiordo, presso il villaggio di Skjolden: Wittgenstein.

 Come sono la pandemia e la guerra viste da qui?

 Strani! Durante i lockdown i boschi si sono riempiti di escursionisti improvvisati. Molte persone del posto hanno riscoperto Pragudin, i boschi dietro casa, le borgate abbandonate. Non ho mai visto tanta gente in giro!

La guerra, poi, è un male grottesco, quasi banale, ma in qualche modo mi preoccupa di meno. A inquietarmi di più sono la moltitudine di tanti piccoli mali invisibili, i veleni sottili che inquinano la pace quotidiana e la convivenza civile. Si spargono troppe nefandezze nel nome del "bene", ad esempio. Queste le temo davvero, anche perché sono difficili da combattere. Ci ritroviamo in piena cancel culture puritana dove qualunque idiota si definisce ormai un woke, cioè un risvegliato, quando in realtà è solo un fanatico in cerca di attenzione, pronto a seminare discordia. Per fortuna c'è una reazione agli eccessi del politicamente corretto. Servono più menti critiche per scongiurare la valanga di tartuferie e ipocrisia a cui siamo continuamente esposti. La libertà di espressione è sempre più minacciata. Ormai non si può più dire nulla. Io metterei quindi l'Omologazione al primo posto dei Mali che affliggono l'Occidente, più della guerra stessa. La tentazione di semplificare, certo, è naturale. Lo so anch'io quanto sia difficile coltivare i contrasti, o ciò che Simone Weil chiamava "il pensiero simultaneo delle verità contraddittorie". Ma serve un maggiore sforzo in questo senso. La ricerca di omogeneità a tutti costi oggi si è trasformato in una vera piaga. Almeno la guerra la riconosci per quello che è. Il male che si fa passare per bene, non sempre.

 Vivendo con 400 € al mese a cosa si deve rinunciare e come cambia la percezione della vita?

 Lo scoop sensazionalistico dei 400 €, che per me è solo una banale conseguenza del mio modo di vivere, chissà perché risveglia tanto l'immaginazione delle persone, come se un giorno mi fossi svegliato, deciso a campare ormai con 400 €! Capisco che un titolo su un articolo deve attirare l'attenzione, ma a volte ne viene fuori una caricatura che distorce la realtà. Lo sa quale è la chiave per vivere bene con pochi soldi? Muoversi poco e pensare il meno possibile al conto in banca. E soprattutto non lasciare che il proprio stato d’animo sia condizionato da quanto uno possiede o meno.

A me la comodità piace, purché sia frugale. A Pragudin mi sento come un pesce nell'acqua a vivere in questo ritiro "egregio", ex-grege, fuori dal gregge. L'ozio creativo e contemplativo fa proprio per me. Ma se fosse necessario, potrei anche lasciarmi tutto alle spalle, senza rimpianti. La mia gioia profonda proviene da altrove, mica dalla salute del mio conto in banca. Ad esempio, se domani dovessi vivere in una tenda, invece che in una casa, sarei meno felice? Perderei molti punti in termini di credibilità sociale, sicuro. Ma lo sentirei come una sconfitta o come un progresso? Si diventa liberi davvero il giorno in cui si smette di vergognarsi. Il giorno in cui non si vive più in base al giudizio degli altri, bensì attingendo al serbatoio dei propri valori. E dunque non penso mai ai 400 €, sono continuamente gli altri a ricordarmi questo particolare. Quando a 35 anni ho  deciso di abbandonare la carriera universitaria come archeologo per diventare un bracciante agricolo nomade, secondo lei a cosa pensavo? A quanto avrei guadagnato? Se fosse così non avrei mai fatto quel passo e soprattutto non avrei mai vissuto le esperienze e avventure che oggi sembrano riscuotere un certo interesse. Si confondono quindi la causa e l'effetto. Come se per abitare in montagna fossero necessari dei soldi, mentre è piuttosto vero il contrario: serve ritrovare il piacere della scarsità di mezzi, quasi la voglia di diventare sempre più poveri. È una questione di ascesi, di vocazione a togliere il superfluo. Chiedere a un eremita quanto spende al mese non centra il bersaglio. Mi fa sentire come se cercassi di comunicare da un altro pianeta, emettendo stravaganti segnali da alieno. E difatti, chiunque si mette a vivere a modo proprio, cioè non come vogliono gli altri, la famiglia in primis, in fondo fa notizia. È stato il mio errare, il mio vagare come mezzo di conoscenza, fuori da un perimetro rassicurante, che mi ha portato a vivere qualcosa di diverso. Non esperienze migliori, soltanto differenti. Ridurre quest'avventura decennale alla questione di 400 € è... come dire? Sconfortante.

 Esiste una ricetta per riconoscere e togliere il superfluo?

 Certo: togliere tutto ciò che si ritiene indispensabile. Se si sopravvive, e ci si rende conto addirittura di vivere più leggeri, allora la ricetta funziona.

Come si fa ad essere in pace con il mondo e se stessi? Lei lo è?

 Con me stesso sì, con il mondo non sempre. Non sono una persona remissiva che va d'accordo con tutti, non cerco per forza il compromesso. D'altronde, credo che sia più importante dire NO nella vita che moltiplicare a vanvera i SÌ. Si può dire in questo senso che sono una persona conflittuale. Se devo scegliere tra la bontà o la verità, scelgo la verità. La verità è poesia, ma forse a pochi piace la poesia. Sono stato educato - traviato, deviato - con un amore profondissimo per la verità, una tara che non ha mai facilitato le mie relazioni sociali. Eppure, "il bisogno di verità è il più sacro di tutti", per citare ancora Simone Weil. Se mi guardo intorno però non vedo molte persone soffrire di insonnia in nome di questa necessità, che non sembra una priorità per la massa. É molto più rassicurante mettersi l'anima in pace, aderire a un'opinione, una Doxa, preferire il consenso della maggioranza. L'intima esigenza di verità per me è una scelta esistenziale radicale che comporta costanti impegno cura e  attenzione. La filosofia, la scienza, in questo senso, sono davvero una pratica di vita, e non uno sproloquio metafisico sul Nulla o un dibattito tra opinionisti in tivù. "Per fare società, bisogna mettersi d'accordo sull'importanza dell'idea di verità", ricorda Étienne Klein. Una Repubblica è un luogo dove bisogna accettare di sentire cose spiacevoli che contraddicono le nostre convinzioni, ma anche dove si deve avere il coraggio di contraddire gli altri in pubblico, non solo sul social, ma in famiglia e nel proprio quartiere. Esporre la propria persona a questo rischio sociale, difendendo la verità, è il principio della "parresia" greca. Sono in pace con me stesso soltanto quando rispetto quest'esigenza.

 Secondo lei chi può "permettersi" di vivere così?

 Come me? Il 99,9 % della popolazione. Ma a me va anche bene che lo sappiano in pochi. Altrimenti lei non mi farebbe più quest'intervista.

 Secondo lei perché la gente diventa schiava degli oggetti così facilmente?

 Perché qualcuno ha inculcato in loro l’idea che non possano essere felici senza di essi. Per esempio, sento continuamente dire che è impossibile vivere senza musica o senza leggere libri. È assurdo. Per anni non ho ascoltato musica né letto neanche un giornale. Nel camper non avevo neanche una radio. Si vive molto bene nel silenzio, o meglio, ascoltando la sinfonia del mondo, decifrando il libro della natura.

 C'è una frase di Leopardi che mi è rimasta impressa, che dice che si può essere misantropi solo se si vive in mezzo alla gente. Che ne pensa?

 Leopardi era parecchio infelice, un groviglio di frustrazioni. È l'esempio di una persona intelligente che non è mai riuscita ad essere serena, in pace con se stesso. Purtroppo nella storia culturale dell'Occidente abbondano i misantropi che la posteriorità ha fatto passare per maestri illuminati. Un Leopardi o un Schopenhauer, giganti del pensiero, sul piano umano invece, mi fanno pena. Viene voglia di confortarli con una pacca sulla spalla. Dai, su, Giacomo, forza Arthur, non buttatevi giù. La vita è troppo bella per l'amarezza, troppo breve per sprecarla in rancore e risentimento.

 Natura madre o matrigna?

 La natura è, basta. Amorale.

Che accezione ha per lei l’ambizione?

 Per essere ambiziosi serve qualcosa che io non possiedo: una forma di irrequietezza profonda, forse un desiderio di riscatto. Le persone ambiziose che sono impegnate a dimostrare al mondo ciò di cui sono capaci spesso hanno avuto infanzie complicate. Purtroppo non sono stato bullizzato come Elon Musk, altrimenti oggi non mi conformerei alla mia villeggiatura da anacoreta pre-pensionato. Farei altro invece che salutare i caprioli e le poiane di passaggio.

 Cos'è la solitudine per lei?

 La capacità di aderire il più possibile al proprio essere, senza tradirne l'essenza. Nella mia esperienza a Pragudin, distacco dal mondo e incontro con l’altro sono due polarità complementari. È un paradosso-scintilla, un contrasto fecondo, una tensione che arricchisce l'esistenza. Anzi, se mi permette la battuta, se oggi uno vuole conoscere nuove persone, fa bene a ritirarsi in montagna. Più è isolato, meglio sarà. La domenica deve solo stare attento a non bere troppo caffè in compagnia degli escursionisti che passano a salutarlo.

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