Oggi faccio un post semiscolastico e personale, anche se di solito preferisco parlare di uno in generale e non di me. Invece qui parlo proprio di me, non tanto per incensarmi (sarebbe assurdo, ve ne accorgerete), quanto per dare un esempio a voi numerosi lettori più giovani di quanto sia forse meglio fare quello che amate anche se ha pochi sblocchi lavorativi, piuttosto che una roba con molti sbocchi che vi fa sboccare.
Ecco, lo so che da quel che leggete qui dentro, voi due lettori, sembro mooolto equilibrata, ma vi vorrei parlare di un (forse) errore (o orrore) che mi attanaglia da decenni: la partita doppia.
Ecco, perché io mi sento un po' perseguitata dalla partita doppia, e mi sono sorpresa a pensare: se so la partita doppia, è perché io valgo. Ecco, io ogni tanto la so, male, poco, ma poi la scordo e non la so più. E quindi non valgo.
Il problema, che non è di uno generico, ma squisitamente mio, è che io, la partita doppia, dovrei insegnarla.
Insomma, con tutta la moltitudine di cose che si possono fare nella vita, che poi sono sempre meno man mano che si invecchia, io sono invecchiata e il mio imbuto di possibilità, assurdamente, si assottiglia sempre lasciando dentro meno cose, ma lei, la partita doppia, sempre, c'è.
Maledetta.
Quando stavo finendo le scuole medie, i professori chiamavano i genitori e dicevano tre cose diverse:
- suo figlio non ce la fa, meglio se fa il professionale;
- suo figlio fatica un po', meglio se fa il tecnico;
- suo figlio può fare tutto, deve fare il Liceo.
Non ho mai capito perché se uno può fare tutto, allora deve fare il Liceo. Se può fare tutto, allora deve poter fare anche il professionale o il tecnico. O altro che non mi viene in mente. Ma no, in quelle scuole ci va solo chi non capisce tanto.
In ogni caso io ero di quelli che possono fare tutto e quindi devono fare il Liceo, così ho fatto il Liceo.
Poi, alla fine del Liceo, di nuovo, i Prof parlavano con i genitori.
Che uno (cioè io) dice: "Insomma, ho la maggiore età, potrò pur ben sapere meglio io, rispetto a uno che mi vede tre ore a settimana, di cosa ho bisogno, o no?"
E infatti sì.
Però a quell'età uno (cioè io) ha scarsa autostima, così ascolta i saggi, cioè i prof.
Perché a quell'età, almeno negli anni novanta, uno ha una visione un po' distorta del mondo, e se è proprio molto ingenuo crede che i prof siano persone meravigliose che sanno tutto. E le persone meravigliose dicono ai genitori di nuovo varie cose:
- suo figlio fatica parecchio a capire, è meglio se va a lavorare, ma chi gli ha detto di fare un Liceo a sto caprone che adesso è un casino trovare un lavoro? (Un altro prof, come lei, direbbe il genitore, e continuerebbe ragionevolmente a pensare: ma chi si fida più dei prof?).
- suo figlio fatica un po' a capire, può fare un'università ma di quelle facili, che so, una laurea breve in qualcosa di tecnico (che poi, fatico a capire perché le cose tecniche debbano essere per chi fatica a capire).
- suo figlio può fare qualsiasi cosa.
Ecco, di nuovo, io ero finita in quelli lì che possono fare qualsiasi cosa. Poi dicevano che scrivevo benissimo, che proprio avevo una dote, poi ero brava anche nelle lingue, negli sport, insomma un sacco di doti. Però, ecco, le lingue, uno se le può imparare per i fatti suoi, con Lettere si finisce a fare i commessi da Ikea, con l'ISEF (adesso mi pare sia scienze motorie, sono anziana), oufff, finisci a fare sostegno a scuola, non c'è sbocco. Ed ecco ora la genialata: è meglio coltivare tutte queste meravigliose attitudini nel tempo libero, e, visto che uno può fare qualunque cosa, meglio se fa qualcosa di UTILE.
E così, mi ritrovo a fare qualcosa di utile: ECONOMIA AZIENDALE. Quell'Università che, nell'indecisa lista delle preferenze, era finita per prima all'ultimo posto.
Vado lì, e alla prima lezione di economia aziendale mi spiegano - di merda - la partita doppia e lì affondo in quell'asfalto fresco di cui parla Enrico Galiano come nelle sabbie mobili. Vado subito a ripetizioni, ma mi sento handicappata, non diversamente abile, proprio handicappata con l'h. Mi dico che forse è meglio accettare i miei limiti: non posso fare qualunque cosa, insomma la fisica, la meccanica e l'economia aziendale no. Ma poi insisto. Ho la maledizione di quella che può fare qualunque cosa. E così vado avanti. Copio in modi assurdi, creo accordi fantasiosi con compagni di università, in qualche modo arrivo in meno di 4 anni a laurearmi in Economia aziendale, senza aver capito quasi niente dell'Economia aziendale, avendo passato il tempo a coltivare le lingue, la letteratura, lo sport, ché poi, ovvio, finisco e addio economia aziendale.
La sera della festa di laurea un rivolo di sudore freddo mi scorre in fronte. Mi sono laureata in ECONOMIA AZIENDALE.
Passo gli anni successivi a cercare di fare altro, ma l'economia aziendale torna sempre. Non riesco a trasformare in lavoro quelle cose che dovevo coltivare da sola, nonostante sappia benissimo le lingue, scriva benissimo, sappia la letteratura, abbia letto tantissimo, faccia benissimo lo sport.
Riesco a lavorare solo con bilanci, soldi, insomma quelle cose che mi vengono malissimo.
Lavoro in Banca, riclassifico bilanci: mi viene, ma lo so, che mi viene male, perché in realtà io sono inglobata economicoaziendalmente nell'asfalto secco.
Nessuno se ne accorge, perché la gente capisce poco e non capisce di capire poco, in generale.
E poi cosa finisco a fare? A insegnare l'Economia aziendale.
Dopo aver preso 80/80 alla scuola di specializzazione per l'Economia aziendale.
Ma ormai si è capito, che i prof capiscono poco, per quello che mi hanno dato 80/80.
Chissà perché, a quei prof che non capivano che io capivo poco, un professore non ha detto: "Capisce poco, meglio se va a studiare al tecnico ed evita l'università". Avevano professori che capivano poco.
Un giorno, a metà della scuola di specializzazione, avevo mangiato un tortino intero da tre persone in un coffe shop di Amsterdam e, sotto gli effetti del tortino, l'unica cosa che dicevo era: "E se adesso mi dimentico la partita doppia?"
L'ho dimenticata, quella poca che avevo capito.
L'ho ripassata.
L'ho ridimenticata alla velocità della luce.
L'ho riripassata.
E avanti così.
L'ho insegnata, ad un certo punto, all'inizio della carriera scolastica.
Gli alunni, a fine anno, in una valutazione della prof, cioè di me, hanno scritto testuali parole:
"La prof è autistica della sua materia". E qui si consolida l'idea iniziale mia dell'handicap con l'h.
"La prof pensa solo alla partita doppia nella vita".
"La prof ama e fa solo partita doppia, nel tempo libero".
Del resto, capivano poco.
Io pure.
Sì, perché a chi devo insegnare la partita doppia? A quelli che capiscono poco.
Quelli a cui i prof delle medie hanno detto: "Capisce poco, deve fare qualcosa di tecnico".
E così, io che capisco poco della partita doppia, devo insegnare la partita doppia a chi capisce poco.
Non è una maledizione?
Forse sì.
Forse no.
Ché, a pensarci bene, un prof che capisce poco capisce gli alunni che capiscono poco. Esercita un'empatia impossibile per un prof che capisce molto, perché nel suo animo devastato dal dubbio rinasce ogni giorno il fanciullino disagiato a rischio dispersione scolastica che c'è in lui.
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