LE COSE CHE SCRIVO IN QUESTO BLOG SONO FRUTTO DELLA MIA FANTASIA (BACATA).
QUALSIASI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ESISTENTI E' CAUSALE.

mercoledì 13 luglio 2016

Partire


Partire per lasciare la propria città per un po',
partire per lasciarla per sempre,
partire per portarsela dietro
con i suoi cibi abitudini riti,
patire per ritrovarla dove si va.

Partire per lasciarsi indietro pezzi,
la propria casa e se stessi,
oppure solo la casa,
oppure solo se stessi,
o ancora nessuno dei due,
portarsi entrambi dove si va.

Partire per lasciare dietro di sé,
partire per lasciare sé dietro.

Partire per raggiungere,
partire per lasciare.

Partire per tornare
e poi, forse, non tornare;
partire per non tornare,
e poi, forse, tornare.

Partire per perdersi,
partire per ritrovare se stessi,
magari in India,
che se uno va in New Mexico 
non lo fa per cercarsi,
anche se poi ci si ritrova
a prescindere dal luogo,
ché solo in se stessi ci si può ritrovare,
mica in un posto dove non ci si è mai persi.

(Il blog chiude per partenza per viaggio. Forse. 
Momentaneamente. Forse.)

venerdì 8 luglio 2016

Galateo in piscina


Quando uno va in piscina, già sa che gli toccherà andare avanti e indietro in una vasca piastrellata senza fantasia contenente acqua aromatizzata al cloro e lunga al massimo 50 m.
Già sottoporsi a questa tortura è umanamente provante.
E' necessaria una dose massiccia di testa tra le nuvole, peraltro ostacolata dalla necessità di contare le vasche.

Il potenziale problema in più è la presenza degli altri, come spesso accade anche fuori dalla piscina.
Gli altri, con il loro esserci, rendono necessaria un'interazione.
Più gli altri aumentano, più cresce questa necessità.
Finché si è uno per corsia, infatti, si può ignorare.
Purtroppo a volte ciò non è possibile.
Si arriva in vasca e non si discerne quasi l'acqua sotto i corpi.
Si deve scegliere in che corsia andare. Il limite stabilito da un galateo di dubbia provenienza trovato in internet dice massimo dodici persone per ognuna. Piuttosto che nuotare con dodici mi riempio la vasca da bagno e faccio rana lì dentro. O cerco una bealera nei dintorni. O mi faccio una sbracciata nel Po, davanti ai Murazzi. O magari poggio la pancia su una sedia con le ruotine e faccio vasche nel corridoio di casa, che fa particolarmente bene agli addominali e ai dorsali.
C'è anche un galateo dell'Arena, che sembra di meno dubbia provenienza e dà consigli magnifici per nuotare in tutta serenità.

Il problema è che, essendo in Italia, queste regole non sono molto seguite.

E poi, anche quando c'è una sola persona per corsia, diventa difficile scegliere bene.
Se c'è qualche vecchio incartapecorito si potrebbe pensare che vada piano e non rompa tanto le scatole. Ci si immerge fiduciosi lì, per poi scoprire che ad ogni incrocio si prende una sciabolata sul corpo inflitta dalla pelle delle sue dita ormai indurita tipo quella del montone messa ad asciugare al sole. La differenza è che quella di vecchio è contundente anche da bagnata. E poi, si sa, i vecchi hanno le giunture incordate, e per fare una bracciata occupano una corsia e mezza con l'estensione massima del braccio a novanta gradi dal corpo.
Se si va in una vasca con una gentil donzella avrà quasi sicuramente delle unghie che manco Edward mani di forbice, con un potere affettante altamente fastidioso e potentemente doloroso.
Conviene cercare giovani maschi aitanti dalla pelle liscia e dalle unghie cortissime, magari anche fisicati tanto per rifarsi gli occhi in alternativa alla vista sulle piastrelle da cesso pubblico. Il problema è che costoro nuotano anche veloci, e tu, se sei una donna lenta, ai loro occhi sarai l'intralcio supremo.

Dal nervoso ti verrà una serie di crampi alle dita dei piedi da non poter più nuotare.

Uscirai dall'acqua in uno stato di totale devastazione psicofisica, e la reazione con il calore del luglio cittadino ti farà diventare una specie cotechino ambulante, con pelle chiazzata e paonazza.

Ma si sa, fare attività sportiva nel circoscritto è sempre limitante.
Meglio andare al mare.
Lì sì che si sta bene.

mercoledì 6 luglio 2016

Specchi. D'acqua.


Uno viene buttato in uno stagno con acqua più o meno alta a seconda dei punti e fondo melmoso.
In questo lago limaccioso ci sono, in sospensione o in sedimentazione, un sacco di robe, belle, medie e anche brutte.

Uno, a starsene lì immerso, a guardare tutte ste robe sparse, a vedere sto fondale melmoso, che può fare?

Può galleggiare in superficie, a pancia in su o in giù.

A pancia in su non vede nient'altro che il cielo, poniamo che sia un cielo delle stelle fisse. Se ne sta lì con il naso in aria, con l'acqua a filo delle orecchie, e fissa fissamente le stelle fisse. Che noia. Poi magari, nella noia, uno dà due o tre bracciate, prende una craniata in un roccione spongiforme e puntuto che se ne sta, fisso pure lui, in mezzo allo stagno, e addio.

Se se ne sta a pancia sotto, magari con la maschera da snorkeling del Decathlon che manco il silenzio degli innocenti, vede tutto quello che succede, le robe sospese o quelle che si muovono su e giù, ma può interagire solo con quelle che gli arrivano a portata di mano o che può raggiungere nuotando al pelo della superficie. La visione intorno rimane limpida, al massimo si prende un colpo d'aria a starsene proprio sul filo dell'acqua con la schiena fuori e il venticello che lambisce i lombi sciacquettati dalle ondine, ma tutto sommato ci si accontenta.

Se uno è curioso, invece, magari fa un po' di iperventilazione, prende un bel respirone e va giù. Andando giù, scandaglia di più le profondità, può interagire con più robe sospese, e può addirittura andare a sfrugugliare quelle che sono piantate nella melma del fondale. Certo, quelle si vedono meno, ma si sa, gli oggetti pesanti tipo i metalli preziosi vanno sempre giù, si conficcano, si nascondono.
E così, se uno vuole prendere una delle robe conficcate, deve sbattersi, rischiare di soffocare se non ha preso un respiro abbastanza ossigenato, e soprattutto smuovere il limo che c'è sul fondo.
Smuovere il limo significa ritrovarsi in breve in un'acqua così torbida da non vedere più una mazza.
L'oggetto sepolto, se si riesce a prendere, si potrà solo toccare con mano, palpare per capire di che si tratti, con il rischio che possa anche essere qualcosa di pungente, mordente, tagliante, insomma pericoloso. E poi non si vede più la realtà come prima. Se ne ha davanti una nuova che è anch'essa realtà, una realtà che manco si vede. Non si sa più cosa ci sia intorno, come quando c'è la nebbia e si può ridipingere tutto con la propria immaginazione sulla tela bianca che propone la natura.
Può portarsi l'oggetto in superficie, aspettare che il torbido si sedimenti nuovamente, capire bene cosa si è recuperato, sempre che sia sradicabile. Se non è sradicabile e lo si vuole tenere, non si avrà altra scelta che starsene sul fondo, stringerlo finché  ossigeno non finisca, o confidare nei progettisti Decathlon che presto fabbricheranno una maschera da Hannibal Lecter con tubo snodabile di varie lunghezze fino a - 254 m.
In ogni caso, se si vuole indagare nel profondo non ci si può esimere dallo sviluppare un torbidore, quello che in piemontese si dice rendere l'acqua strrrrbula (con tante r e la u dieresata). E lo sturrrbulo, una volta sviluppato, mica se ne va facilmente. Crea un alone che andrà via solo se uno torna in superficie, non sfruguglia più il fondo nemmeno con movimenti inconsulti del corpo, se ne sta mummificato a galleggiare, con o senza l'oggetto prelevato, che sia o no conforme alle aspettative.
Certo, però, chi ha detto che vedere chiaramente quello che c'è nello stagno dall'alto sia l'opzione migliore?
Magari per qualcuno lo è;
per qualcun altro, invece,
è più interessante
indagare il fondo
disegnare sulla tela che il torbido gli offre,
scoprire ciò che è coperto,
diseppellire ciò che è sepolto,
con il rischio
di affondare nelle sabbie mobili limacciose
e lì rimaner(ci).

lunedì 4 luglio 2016

La casa


La casa dov'è?
E la casa cos'è?

La casa per qualcuno è il luogo dov'è nato, e anche se andrà sulle vette più impervie o nelle profondità marine, anche se vivrà ai Tropici, la casa sarà dove è nato. La casa sarà dove c'è una mamma che gli prepara i pasti, gli fa il letto, dove c'è la sua cameretta, dove ha radici che lo affondano in una linfa originaria ovunque vada, allungandosi a seconda della sua elasticità.

Per altri, invece, la casa è dove uno ha ridisegnato i luoghi, ovunque li ridisegni, e quindi la casa non è fissa: è solo un posto dove uno si insedia, dove prende possesso degli anfratti, dove, pulendola per la prima (e per alcuni anche ultima) volta, scopre i particolari, entra in armonia con loro, li fa in qualche modo propri.

La casa  per alcuni è nella testa,
per altri nella pancia, ché quando ci si trova è una stretta alle budella tipo partenza per la gita scolastica alle elementari,
per altri ancora nel cuore.
Per alcuni la casa è l'altro e nell'altro, nel riconoscersi in qualcuno che diventa significativo per la loro vita e che fa vedere tutti i posti intorno come attraverso una carta di Cuneese al rhum, dove il rosso o verde è lui che filtra e ridisegna tutto.
Per certi la casa non esiste, per altri è ovunque, ché poi è un po' la stessa cosa.
Per alcuni la casa è un punto, fuori o dentro di sé, per altri un edificio, per altri ancora una città, un Paese, un continente, un pianeta intero, una galassia inafferrabile.
Per qualcuno la casa è un posto da cui fuggire, per altri un punto d'approdo.

La casa è dove sei,
La casa è dove non sei.

C'è chi ne ha una sola e chi ne ha molte, al mare, in montagna, al lago, nella pancia, nel cervello, nel cuore.

Casa come riparo ma anche limite,
casa come rifugio ma anche isolante,
casa come stato mentale ma anche fuga da sé,
casa come incontro ma anche scontro,
casa come tetto sulla testa a riparare le intemperie,
casa come confine con le altre persone intorno,
casa come suolo su cui poggiare i piedi,
casa come accumulo degli ingombri della propria vita ma anche dei propri beni,
casa come sviluppo delle polveri da pulire ogni volta per ritrovarsele dopo poco,
casa come letti da fare, bagni da pulire, pavimenti da lavare.

Dove sei?
A casa.
Quale?

domenica 3 luglio 2016

Psicosomatica della rovina


Uno aveva cinquantuno battiti al minuto sotto sforzo
l' ematocrito altissimo
Il colesterolo inesistente.

Era una macchina da guerra di resilienza alla vita.

Poi
succede
qualcosa.

Si ritrova
con il cuore che batte talmente
nelle notti
da svegliarlo con i suoi echi nella testa,
con il suo rimbombo sul cuscino,
ché anche il camion della pattumiera,
quello cigolante,
braccia di ferro incordate dalla ruggine,
bocca metallica dall'alito infernale,
non é nulla di fronte al pulsare assordante del proprio sangue
che in qualche modo vuole uscire dalle vene,
che vuole s-correre altrove da lì,
e spinge a fiotti costretti.
Spinge contro l'adipe della paralisi
che si ammatassa nelle arterie,
che blocca le vie,
otturate
bloccate
come uno lo si sente
nelle sue vie mentali
nelle sue vie reali.