LE COSE CHE SCRIVO IN QUESTO BLOG SONO FRUTTO DELLA MIA FANTASIA (BACATA).
QUALSIASI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ESISTENTI E' CAUSALE.

martedì 31 maggio 2016

Il matrimonio è un'azienda


Il matrimonio è un'azienda.
La sua costituzione si basa su un contratto depositato e firmato.
Ha un suo layout, un suo marketing, una pubblicità interna ed esterna.
Ha una politica di fidelizzazione che rende ognuno parte indissolubile ed indispensabile dell'impresa.
Prevede un'organizzazione dei tempi, dei modi, delle procedure che tendono a diventare sempre più standard nel tempo.
Quando si gerarchizza secondo uno dei modelli previsti o creati all'uopo, richiede sempre più pianificazione per poter funzionare in modo oliato,
i suoi meccanismi stessi vanno oliati nel tempo per poter girare in qualche modo nonostante l'obsolescenza degli insostituibili macchinari.

Ha delle precise regole da rispettare:
  • prevede una serie di diritti che a saperli tutti già a uno viene un senso di prevaricazione.
  • prevede una serie di doveri che a seguirli tutti già a uno viene un senso di costrizione.
Si tratta di un'azienda che non prevede il tempo determinato, i co.co.co., i co.co.de.:
esiste solo un infinito tempo indeterminato,
fin dall'inizio,
fino alla fine,
e di questi tempi
uno, il tempo indeterminato, se lo tiene stretto fino alla morte.

E l'amore?
Beh, l'amore è un optional.

sabato 28 maggio 2016

Cose preziose

A volte nella vita si trova prezioso qualcosa
di incommensurabilmente distrutto,
o di pessimo gusto,
o inutilmente ingombrante,
o ancora di pochissimo valore,
o qualche cibaria o bevanda andate a male
o schifosissime.

L'uomo (inteso come specie) è un essere stranamente nostalgico, che crea collegamenti mentali al limite dell'assurdo e oltre.

Vede un oggetto
e non vede l'oggetto.

Vede un frutto e non vede il frutto:
vede le mani nere di terra spaccate dal lavoro callose generose teneramente grandi che lo hanno raccolto.
E così il frutto non è più un frutto ma una passione, un sacrificio fisico, un'attesa del germogliare, un'annaffiare,un proteggere dalla grandine, una cura che si assapora mentre se ne addenta la polpa.

Vede un paio di scarpe vecchie bucate spelacchiate sformate con le suole scollate e non vede un paio di scarpe vecchie bucate spelacchiate sformate con le suole scollate:
vede la strada che hanno percorso addosso a lui, mentre ridisegnava città, sente tutti quei chilometri nelle loro suole lisce, che quando piove pianta delle scivolate di metri e metri sulle piastrelle lisce dei portici.
E così le scarpe non sono più scarpe ma pezzi di vita vissuta.

Vede un orribile pelouche dei colori dell'arcobaleno riproducente un organo sessuale maschile e non vede un orribile pelouche dei colori dell'arcobaleno riproducente un organo sessuale maschile:
vede il momento in cui i suoi amici riuniti hanno avuto quell'attacco di infantile demenza senile e glielo hanno regalato per il suo compleanno o per il suo addio al celibato/nubilato.
E così il pelouche non è più un pelouche, ma il simbolo della sua amicizia a vita con quei suoi dementi presenti anche quando assenti amici.

Vede una biro azzurra compratagli a mille lire nel 1988 dalla propria madre e non vede una biro azzurra compratagli a mille lire nel 1988 dalla propria madre:
vede una madre con un figlio che vorrebbe proprio quella biro e poi ci rimane male perché lei gliel'ha davvero comprata, e un desiderio esaudito a volte fa rimanere di stucco, con un certo amaro in bocca per il sacrificio che al bambino sembra stranamente esagerato, quando ci sono tutte quelle biro azzurre da 200 lire e volendo avrebbe potuto anche usare quella blu, e poi la custodisce con cura certosina, e la centellina per scrivere solo i titoli più importanti di tutti gli appunti della sua vita fino all'Università e oltre.
E così la biro azzurra non è più una biro azzurra, è la cura di una madre che per una volta ha voluto fare un piacere insensato a un figlio molto raramente viziato.

Vede un libro su uno scaffale e non vede un libro su uno scaffale:
vede condivisioni, luoghi, l'istante dell'acquisto, un vissuto ritrovato, dediche, commenti a matita, sottolineature che hanno cambiato la vita, o almeno il modo di vederla, almeno per un po', a volte per sempre.
E così il libro non è più un libro, è un'emozione.

Come si fa a buttare cose così preziose?
E così uno si ritrova a vivere in una casa straripante di oggetti preziosi,
seduto su una poltrona vecchia e logora che ha portato a braccia su dalle scale nel 2010 con una sua cara ex coinquilina spaccandosi la schiena e facendole battere una culata sul marmo delle scale,
a risfogliare un libro sottolineatissimo,
rifinendo con una storica biro azzurra la frase più significativa,
mentre appoggia la schiena su un pelouche arcobaleno di forma fallica che sua madre ha cercato di gettare via ogni volta che è andata a trovarlo,
addentando un frutto tutto spaccato dai becchi degli uccelletti che infestano le coltivazioni del suo amico contadino
e
accavallando le gambe con all'estremità scarpe che sarebbero proprio da buttare via, ché pure quelli di Humana ci sputerebbero su, e gli stessi zingari che rovistano nei contenitori degli abiti usati preferirebbero camminare scalzi sui ceci piuttosto che impossessarsene.

L'unica cosa inquietante,
quando si hanno cose così preziose in casa,
oltre a pulire,
ma quello è un evitabile optional,
è
il famigerato
devastante
maldischenizzante
spettro
del
TRASLOCO.

Ma, tutto sommato, per quello ci sono gli amici, quelli del pelouche.

Forse.

giovedì 26 maggio 2016

La città puzza


La città puzza.
E' un organismo putrescente e si accartoccia su se stesso e sulle sue fogne, che si insinuano maleodoranti su per i tubi
delle docce
dei lavandini
dei water
dei bidet che solo noi italiani abbiamo, tanto per avere un tubo in più da cui sniffare il maleodore delle viscere della città.

Ma il maleodore delle viscere della città è il nostro maleodore, che cerchiamo invano di ricacciare giù, e che torna su quando ormai credevamo stoltamente di essercelo tolto di dosso.

Noi uomini, ammassati nelle città, siamo in lenta putrefazione già dalla nascita, già prima della morte, che riverserà i nostri vari liquami corporei nelle casse ammucchiate nei cimiteri. I liquidi odorosi rimarranno per qualche anno ad autocompiacersi gli uni gli altri nelle bare di zinco, che a loro volta si decomporranno scientificamente rilasciando comunque alla fine quel residuo putrefatto che andrà ad alimentare qualche discarica, e quindi ci tornerà indietro, parecchio dilazionato ma pur sempre indietro.

Il maleodore in vita, quello ce lo becchiamo tutto.
Ascelle puzzolenti del vicino di tram appeso alle maniglie, si sospetta appositamente piazzate in alto;
Esalazioni gassose pluriprovenienti da tutte quelle persone che ci circondano, a distanze più o meno ravvicinate, procedendo nella loro lenta putrefazione;
Aliti
di cibi in digestione
di marciume dei denti
di vecchiaia;
Odori che iniziano appena dopo le troppe docce che i cittadini si fanno per non puzzare,
dopo essersi coperti il corpo di deodoranti antiodoranti antitraspiranti,
dopo essersi aspersi di profumi che reagiscono creando olezzi ancora più nauseabondi,
perché il cittadino è sempre più psicosomaticamente spaventato da tutti questi altri cittadini così vicini e si difende dai rapporti come natura può fare.

Sarà per affinità di riconoscimento che al pubblico non si devono mai offrire delicati profumi che l'esasperino, ma solo lordure accuratamente scelte?

martedì 24 maggio 2016

Due notizie per te


Se sei una persona non socialmente pericolosa,
non di quelle che se si arrabbiano prendono un coltello e lo piantano in qualsiasi cosa si muova,
non di quelle che quando perdono i gangheri potrebbero strozzare qualcuno con una mano sola,
insomma,
se sei una persona che se si arrabbia al massimo dà un pugno al muro
o spacca qualche mobile a calci,
se si dispera al massimo si mangia 8 kg di biscotti
o si fuma 345 sigarette una dopo l'altra,

ho due notizie per te,
una buona
una cattiva.

Prima la buona o la cattiva?

Prima la cattiva, che così poi ci si addolcisce la bocca con quella buona.

La cattiva notizia è che,
per quanto tu non lo voglia,
per quanto tu possa anche decidere di passare la vita legato a una sedia con piaghe da decubito nelle chiappe,
per quanto tu cerchi di non fare nulla di sbagliato,
farai del male a qualche persona.

La buona notizia è che
nessuna di loro morirà per questo.

sabato 21 maggio 2016

Capire

C'è un'attività che pare vitale nella vita di ognuno di noi.
Quest'attività è capire.
Ci viene chiesto di capire fin dalle scuole più facili, le elementari.
All'inizio uno deve capire semplici e basilari concetti.
Poi deve capire concetti più complessi e articolati.
Finché uno è piccolo, dice a se stesso che si può permettere di capire concetti limitatamente complessi, e tira un sospiro di sollievo.
Per fortuna, è troppo piccolo per la complicazione.
Ma poi arriva la famigerata età della maturità.
L'età della maturità è infingarda, perché giunge alla chetichella, mentre uno crede sempre di essere troppo giovane per capire.
Mentre uno è lì che crede, all'improvviso qualcuno gli fa notare che è maturo.
E' maturo per dover capire le cose complesse e articolate che consistono nel saper gestire una vita socialmente accettata.
L'avvenimento accade di solito da un momento all'altro.
Uno rimane un po' colpito.
Poi si mette lì e riflette.
Deve capire.
Anzi, deve aver capito.
Che fare?
Constatare di essere disadattati o mimetizzarsi ai più fingendo di aver capito?
Fingere di aver capito tutto solo con gli altri o farlo anche con se stessi?
Certo, far finta di aver capito quello che si vorrebbe aver capito è un'allettante opzione.
A furia di ripeterselo, ci si convince.
La buona notizia è che il periodo della maturità è solo il cucuzzolo della curva dell'andamento della propria vita: si deve mentire a se stessi per ben poco tempo.
E' molto più lungo il periodo in cui si è troppo acerbi per capire già,
lo è molto di più quello del declino, in cui si è troppo vecchi per capire ancora.
Qualche anno di balle,
e poi si è di nuovo liberi
di non capire.

giovedì 19 maggio 2016

Giochi

Tempo fa avevo rallegrato i lettori con un'interessantissima proposta di sibilla casalinga e giocosa.
La sibilla in questione consisteva in un ventaglio di opzioni fino a ventisette, concomitanti con combinazioni di frutta secca e cioccolato di copertura, a cui abbinare risposte a quesiti esistenziali più o meno ramificati. Meglio dell'oroscopo, che ha solo dodici varianti e oltretutto ci vincola a una sola opportunità per niente cangiante nel tempo.
Nel caso delle dragées, invece, ci si può sbizzarrire nell'inventare, più degli astrologhi, risposte assurde su ognuna delle quali si può ricadere.
E le dragées stanno lì, tranquille. Non prendono decisioni svincolate dal loro proprietario, e finché non vengono mangiate tutte, assolvono al loro compito di dare risposte casuali a domande per cui non c'è risposta.
Il fatto è che, dopo anni e anni di scommesse da quattro soldi, peraltro quasi sempre sconfessate dalla realtà, che generalmente trova la ventottesima opzione a cui non si era assolutamente pensato, uno, dopo aver pensato di giocare con i cioccolatini, si rende conto che sono stati loro a prendersi gioco di lui, e che è diventato di 156 kg.

Al che si mette a fare jogging e smette di andare all'Eurospin.

Facendo jogging, si ritrova a passare sempre davanti a un negozio di musica, e il negozio si estende per una serie piuttosto lunga di vetrine specializzatissime, e in una di queste c'è un tavolino proprio attaccato alla vetrata e dietro il tavolino una sediolina, e sul tavolino un sacco di pezzi di tromba e attrezzi. Girato verso la strada, sulla sediolina, c'è un vecchietto canuto e barbuto, con gli occhi azzurri, una specie di babbo Natale magro specializzato in riparazione trombe. Invece di farsi un laboratorio come tutti farebbero, esiliato in un sottoscala nel retrobottega, si è messo lì, per guardare la gente che passa, per evitare di vedere sempre gli stessi colleghi e gli stessi clienti tipici di un negozio che, in quel preciso reparto, vende e ripara solo trombe.
Ovviamente non è sempre lì, perché si immagina che a volte debba andare in magazzino, altre parli con clienti, altre ancora stia al bar di fronte a bersi un caffettino.
E così, lo scommettitore folle che passa lì davanti correndo inizia a fare giochini sulla presenza o meno del riparatrombe.

E' una dipendenza, non si può smettere stando semplicemente alla larga da Eurospin e frutta secca con cioccolato.

E' come quando uno smette di mangiarsi le unghie
e inizia a scarnificarsi la testa a furia di grattate,
smette di scarnificarsi la testa a furia di grattate
e inizia a farsi cicchettini alle 8 del mattino,
smette di iniziare a farsi cicchettini alle 8 del mattino
e inizia a drogarsi,
insomma, cose che capitano a tutti.
Alla fine forse si ricomincia con le unghie.
Se va bene.

Se uno ha la dipendenza da insulse scommesse con se stesso, le farà comunque prendendo come pretesto qualsiasi cosa.
In questo caso, il riparatrombe.
Un po' come una puntata su nero o rosso della roulette.
C'è o non c'è.
Semplice, lineare.
"Sarò felice nei prossimi 50 anni? Se c'è sì, se non c'è no".
Se poi c'è, ci si compiace stoltamente.
Se non c'è, ci si dice che sono tutte cagate e ci si compiace stoltamente dell'essersi corretti nella propria assurda superstizione autoprodotta.
La costante è lo stolto autocompiacimento.

Un giorno, però, presi dalla scommessa in atto, si arriva davanti alla famigerata vetrina, ci si gira, il vecchietto c'è, ci si compiace stoltamente come sempre, ma succede qualcosa di imprevisto.
Il vecchietto ci vede.
Ci fissa con i suoi occhi azzurri interlocutori.
Ci osserva.
Cavoli, con la frutta secca non succedeva.
Ecco cosa accade a lasciare la via vecchia per la nuova.
Ci si rende conto che il vecchietto,
a sua volta,
scommette sul nostro passaggio o meno davanti alla sua vetrina.

E così,
si credeva di usare come giochino il vecchietto,
ma non che
anche il vecchietto usasse noi come giochino.
Cambia l'oggetto/soggetto,
non cambia il risultato.
Era solo più prevedibile,
essendo animato da un'anima.

Chi vuol giocare giochi,
ma poi non si stupisca di perdere
o di essere giocato.

martedì 17 maggio 2016

Peccato (s)confessato


La confessione, in chiesa, è quella professione di colpevolezza che per i cristiani si manifesta con una preoccupazione grandissima.

La preoccupazione è: mi ricorderò tutto l'atto di dolore?

Uno va davanti al patibolo ligneo, si inginocchia legnosamente, e il pensiero principale che anima la sua mente è l'atto di dolore finale.
Ha avuto un bel ripeterlo ottantasette volte seduto al banco, invece di chiedersi quali potessero essere i peccati da confessare.
Una volta prostrato davanti al prete, che per fortuna legge menefreghista Famiglia cristiana o Playboy (più Playboy) comodamente nascosto dietro il pannello bucherellato, diventa difficile anche articolare parole sulle proprie malefatte, talmente si è focalizzati sulle strofe dell'atto di dolore.
Si elencano un po' di peccati standard pretabili, cose tipo
ho mangiato troppo cioccolato
non sono stato generoso
desidero la donna d'altri
possiedo l'uomo d'altri
(che poi già qui c'è un doppio peccato di appropriazione di essere umano, peccato gravissimo, ma almeno suddiviso con 'altri')
rubo
mi drogo
mi prostituisco
ho ucciso un uomo,
cose così,
ma intanto il pensiero fisso è l'atto di dolore.

E' inutile impegnarsi nell'elencare tantissimi peccati per rimandare il temuto momento, anzi è controproducente. E' infatti risaputo che la permanenza prolungata con le ginocchia su un asse di legno non è proprio indicatissima per la salute, e si rischia di dover affittare una carrucola che ci sollevi dopo la contrizione finale.

Conviene quindi avviarsi rapidamente alla prova del nove, sparando una sintetica compilation prefabbricata di peccati, sempre quella, a partire dal giorno della prima comunione fino a quando ci si stufa di essere praticanti e ci si rifugia nella accoglienti braccia dell'agnosticismo
o dell'ateismo
o semplicemente della non praticanza.

Il prete poserà Famiglia cristiana o Playboy (più Playboy), si girerà e dedicherà la massima attenzione quando dirà "Ora recita l'atto di dolore".

In quel momento il cervello sarà raggiunto da una nuvola pulviscolosa nera, e la recitazione si avvierà in modo troppo precipitoso per essere sicuro.

AttodidoloreMioDiomipentoemidolgocontuttoilcuoredeimieipeccati (inspirazione profonda)
perchépeccandohomeritatoituoicastighiemoltopiùperchéhooffesote (altra inspirazione affannosa)
infinitamentebuonoedegnodiessereamatosopraognicosa.

(Lungo silenzio)

Qui solitamente arriva il buco nero completo, con tutto il suo vorticante nulla aspirante.
Si entra in un panico tremante, si inizia a pensare a robe come comeincielocosìinterra. Ma no, è il padre nostro.

PropongoconiltuosantoaiutodinonoffendertimaipiùedifuggireleoccasioniprossimedipeccatoSignoremisericordiaperdonami non esce mica dalla bocca.

Forse c'è un senso.
Forse uno non se lo propone davvero, di fuggire le occasioni prossime di peccato.
Che poi,
chi l'ha deciso qual è il peccato?
Sarebbe un peccato anche rinunciare al peccato.
Al tempo stesso sarebbe un peccato rinunciare al peccato di rinunciare al peccato.
E non sarebbe forse un peccato evitare il peccato di rinunciare al peccato di rinunciare al peccato?
(ed ecco l'elenco prefabbricato per la prossima volta, estendibile all'infinito)

Già solo con il pensiero, non ci si pente,
non ci si duole.

Si è uomini fallibili,
si dà lavoro ai preti,
anche loro uomini fallibili.

Sarebbe però un vero peccato che un peccatore peccasse remidizzando i nostri peccati.

Meglio raccontarli direttamente a dio.
Quale dio?
Non c'è?
Non c'è.
Va beh, allora aspetto.

sabato 14 maggio 2016

Il mondo è una cipolla e a volte fa lacrimare gli occhi


Appurato che la libertà non esiste, ammettiamo che esista un certo margine di azione, che potremmo definire libero arbitrio.
Questo libero arbitrio è un margine che tutti possediamo, e che, essendo noi in tanti su questo pianeta, è, per ognuno, limitato da quello altrui, in un confinare di margini che appare un po' come il vestito carnevalesco di Arlecchino.
Abbiamo questa pezza di libero arbitrio, di cui noi siamo il fulcro, che si combina in modo da combaciare perfettamente con le pezze degli altri.
Non c'è soluzione di continuità tra le pezze. Ché poi significa che c'è continuità tra le suddette. Mi sono sempre chiesta perché volesse dire questo, poi la crusca mi ha spiegato che soluzione sta per interruzione, il "senza" contraddice l'interruzione e quindi i due termini si annullano a vicenda, e sarebbe tale e quale dire "con continuità", ma fa molto più figo dire "senza soluzione di continuità", anche se impegna e può facilmente essere soggetto a fraintendimenti, contorsione linguistica che tra l'altro è molto ricercata dalle persone che vogliono fare le fighe.
Ma torniamo alle pezze. Siamo lì con la nostra pezza bordata dai suoi confini, un po' come le cellule del tessuto di cipolla che ho messo come immagine di questo post. Poniamo che la cipolla sia la Terra e che la sua buccia siamo noi, incasellati nelle nostre prigioni di libero arbitrio. Prigioni perché hanno dei confini ben precisi, contro i quali cozziamo se vogliamo andare oltre. Ma fin lì, possiamo sguazzare come paperelle nello stagno a primavera.
I problemi nascono con il fatto che ognuno è uno, fatto a modo suo, e quindi ci sono paperelle che gestiscono in scioltezza il proprio stagno così com'è, altre che vanno a prendere la canna (dell'acqua, non del gas), la attaccano al rubinetto della loro autoconsiderazione e iniziano ad allagare lo stagno in modo che esondi, altre che invece se ne stanno lì in mezzo al loro laghetto contemplando l'esondare dell'acqua dell'esosa paperella vicina di stagno, e a volte si incantano pure a guardare queste meravigliose cascate altrui inondare la loro area, magari con tanto di pulviscolo acqueo che proietta arcobaleni illusori incorporei manipolatori. La paperella incantata si ritroverà in uno stagnino piccolo piccolo (fino ad avvicinarsi inconsapevolmente alla canna, questa volta del gas), quella esosa amplierà il proprio, ma non si sfuggirà comunque alla legge del confine.
Ampliamento del confine mio, ristrettezza del confine tuo.
Condividere la buccia di cipolla stagnante in modo equo è una marxista illusione.
La gente è avida.
Non importa cosa possa farsene, del libero arbitrio, né che valore abbia.
L'importante è averlo.
Poi si vedrà.
Se per ottenerlo si deve schiacciare quello di qualcun altro, qualcuno che magari è meno esoso pretenzioso invasivo prepotente, fino a vederlo compresso nella sua pezza come un piumino Ikea nel sacchetto sottovuoto a fine stagione, tanto meglio.
Si ottiene un bel libero dittatoriale arbitrio.
Due caratteristiche in una.
Che poi,
con il proliferare degli stagni a primavera,
con l'avvicinarsi dell'estate,
con il comprimersi del piumone sottovuoto,
du gust is megl che uan.

giovedì 12 maggio 2016

? (domanda)


Uno è lì in santa pace (cerebrale) che sostiene in qualità di prof di sostegno, afflosciato su un banco vicino al suo alunno sostenuto, a sua volta afflosciato sul suo.
All'improvviso, il docente curricolare gli dice "Non è che vuoi fare lezione tu?".
A lui non par vero, anche se non ricorda più precisamente quale fosse la sua materia nell'altra vita in cui l'aveva insegnata.
Dà uno sguardo al libro, vede che si tratta proprio di un argomento familiare a un'ala sopita del suo cervello.
La domanda.
Si dice che forse era una prof di italiano. Domanda: sostantivo, nome comune di cosa, genere femminile, numero singolare, forma interrogativa.
No, forse no, ci sono dei grafici.
Ahhh, ecco, sì, si staglia nell'immaginario una materia con qualche vago sentore economico.
Già, già, era un prof di economia. Laureato in economia. Specializzato in economia.
Una vita fa.
Ormai è blogger. E, attività collaterale volta a sopravvivere con uno stipendio pecuniario, ha la copertura di prof di sostegno.
Non si vuol far sfuggire l'occasione, quindi sfodera un professionale sorriso e si avvia sicuro verso la lavagna. Butta un occhio al libro, lo lancia sulla cattedra con il fare di quello che non ha bisogno di consultare mai.
La domanda, che sarà mai.
E si mette a fare esempi con le mele, ché le mele, a scuola, fin dai tempi di Pinocchio, non mancano mai.
Traccia un piano cartesiano, e intanto le reminiscenze tornano su come rutti dopo una serie di birre al pub. Uno non se li aspetta, ma arrivano, perché ha bevuto un sacco. In questo caso, non se le aspetta, ma arrivano, perché ha studiato un sacco.

Inizia a spiegare la domanda neutrale, quella dell'uomo razionale. Quello che al dimezzarsi del prezzo raddoppia la quantità acquistata, al raddoppiare del prezzo la dimezza. Matematico. Palloso. Niente di imprevedibile, una curva di domanda con regolare discesa. Un corrispondente grafico dell'andamento emozionale dell'acquirente regolare e collinarmente stabile.

Poi fa esempi in cui uno, davanti ai prezzi ridotti o aumentati, si emoziona tantissimo, prova sentimenti che gli toccano le corde più intime, e reagisce in modo teatrale al passaggio di prezzo di un chilo di mele da 1 € a 50 centesimi, riempiendosi di tanti di quei frutti che dovrà tornare a casa mettendoseli in più sporte e anche in ogni alloggiamento degli indumenti, come un giocatore di tennis con i pantaloncini deformati dalle palline di riserva che gli gonfiano le tasche.
Poi, la persona passionale vedrà il prezzo arrivare a 2 €. Prenderà una sola mela, sconvolto dall'allucinante aumento, mica ne comprerà la metà come fa il neutrale. Arrivato a casa, affetterà la mela in tante lische trasparenti a furia di sottigliezza, e farà durare la consumazione giorni e giorni.
Gli alunni, di fronte a questo individuo emozionalmente instabile, mica si scompongono. Capiscono benissimo, dal loro punto di vista di studenti di un famigerato professionale. Non oppongono obiezioni.
Uno spiega loro che costoro, che reagiscono agli eventi con trasporto, abbondando o strarisparmiando, creano una domanda elastica. Questo tipo di domanda ha un andamento più appiattito rispetto a quello della domanda neutrale. La curva va più lontano.
Certo, uno così avrà un andamento emozionale, sempre immaginato su un piano cartesiano, oscillante con picchi positivi e negativi da ottovolante.
Certo, uno così è affine agli studenti, che hanno quindici anni, e, per quanto lobotomizzati possano apparire a chi ha più anni e esperienza di loro, possono insegnargli come emozionarsi ancora, nel bene e nel male, e comunque a sentirsi vivo.

Si affronta poi l'individuo tipicamente anaffettivo, a partire dalla relazione con gli oggetti, non parliamo di quella con gli esseri umani. Il freddissimo, a fronte di eventi come il dimezzamento o il raddoppiamento del prezzo, ha oscillazioni comportamentali che si scostano di ben poco. Al massimo cambia di qualche mela, così, tanto per non fare il rigidone. E così, la curva di domanda anelastica che ne sbocca è molto più inclinata di quella neutrale. Insomma, ad essere anelastici, la curva si schianta in picchiata.
Uno così poco elastico avrà una curva emozionale su piano cartesiano con pochissime oscillazioni. Altro che colline, qui si arriva pressoché a un tavoliere.
A questo punto uno vede che gli alunni iniziano a agitarsi sulle sedie come morsi da tarantole. Iniziano a fare scattini, come a voler dire qualcosa, ad aprire la bocca, poi richiuderla. Osservano perplessi il prof e la lavagna, la lavagna e il prof, ormai rientrato in pieno nel suo originario ruolo, il ruolo per cui aveva sputato sangue alla SSIS.

Uno riesce ancora ad arrivare alla domanda rigida prima che finisca l'ora. Fa l'esempio di uno che deve fare una torta con quattro mele. Questo, con i paraocchi, non pensa di poterne acquistare altre se costano poco e tenersele lì per creazioni culinarie diverse, o anche solo per mangiarle, sempre che non gli facciano schifo. Se invece costassero carissime, ne comprerebbe comunque quattro, perché lui deve fare 'sto dolce con 'ste quattro mele. Non lo farà mai con le pere magari economicissime, e nemmeno con pomi d'oro, caso mai fossero più economici, in un mondo folle in cui le mele costassero meno dell'oro.
Grafico su piano cartesiano dell'andamento emozionale di costui: zero. Cardiogramma da morto tipico di E.R..
E qui, è finita.
Non si sa se è perché l'ora volge al termine, ma inizia una serie di obiezioni molto accalorate: "Ma prof, questo è un *@#<§!" , "Non è possibile che esista al mondo un  *@#<§ del genere!".
E vai a spiegare che si tratta di ipotesi diverse per dimostrare tipi di curva di domanda diversi,
 che la gente è diversa come le curve di domanda,
che ognuno è uno,
che esistono davvero morti viventi che agiscono con il paraocchi.
No, non lo possono accettare.
Non lo vogliono accettare.
La classe diventa un pandemonio.
Volano oggetti.
Grida selvagge si levano nell'aria.
Il prof non riesce più a spiegare.
E lì, si dice che

forse

nonostante le apparenze

c'è speranza per il futuro.

martedì 10 maggio 2016

Compressioni


Se c'era qualcosa o qualcuno su cui esercitavi una forma di potere, che lasciava che tu esercitassi una forma di potere su di lui, all'improvviso questo qualcosa o qualcuno cambierà.
Prenderà altra forma.
Se era un cubetto di quelli che mettevi nelle formine e ci scivolava dentro a meraviglia, gli succederà qualcosa, una modificazione genetica, un'espansione poliuretanica.
Ti chiederai perché, ti chiederai come, ti chiederai un sacco di cose.
L'unica che ti sarà evidente sarà che quel qualcosa o qualcuno, con la tua torre in plastica bucherellata, non c'entrerà più molto. Non ci sarà più un alloggiamento dove far scivolare la forma perfettamente pensata per scivolarci.
E allora ti preoccuperai, ti dispererai, ti disorienterai, inizierai a esercitare una forza comprimente-opprimente sul tuo qualcosa o qualcuno che non sarà più tuo, sarà altro, e non ti andrà giù che sia altro, che sia lontano seppur vicino, che sia espanso in modo così imprevedibile.
E allora inizierai a costruirgli intorno palizzate di quelle piccole piccole, di quelle cubiche con lato pari a un intorno infinitesimale.
E allora inizierai a comprimerne questa nuova forma sconosciuta, con protuberanze mai viste, con espansioni che reputerai mefitiche e pestiferamente bubboniche, facendo perno e mettendoci su tutto il tuo peso nel tentativo di ricondurla al cubetto iniziale che conoscevi e che ti era tanto familiare.
Vorrai far tornare tutto com'era prima, ti racconterai storie su vasi giapponesi rotti migliorati da colla d'oro che ne valorizza le crepe.
In realtà, un vaso rotto è un vaso rotto.
Puoi incollarlo anche con filo di diamante, non sarà mai più come prima.
Ogni volta che guarderai una di quelle crepe, per dorate diamantate valorizzate che siano, rimarranno crepe, e le crepe, avessero anche in ogni millimetro cubo il valore del debito dello Stato italiano, fanno un male dell'anima.
Le cose compresse, poi, schiacciate come cubi di ex automobili sfasciate dallo sfasciacarrozze, sono pericolosissime.
Magari non subito come una Supernova, che è una palla di fuoco e gas, una roba spaventosa che ti nucleosintetizza in un'orgia di fuoco atomico, a volte riesci anche a comprimerla per un bel po' di tempo mentre il gas che la anima cresce cresce e cresce, come una pentola a pressione incontrollata, incontrollata perché forse riuscirai a farla passare ancora attraverso quel buco in cui ti ostini a farla passare, ma sarà questione di tempo.
Durante quel tempo raggiungerai una sorta di rassicurazione,
una bugia che ti racconterai per non impazzire
per la rabbia stizzosa di non avere il controllo sul tuo cubetto
sul tuo giochetto
che non è un cubetto
e non è un giochetto.
Ciò che comprimi, però, tende a riprendere la sua forma decompressa.
Più lo comprimi, più energia gli dai per tornare ad espandersi.
Più lo schiacci, più forza devi esercitare.
Più forza devi esercitare, più ti stanchi.
Più ti stanchi,
più, nel momento in cui esploderà,
il pericolo sarà a livello Supernova.
La palla di fuoco e gas che volevi fosse un inerte cubetto in plastica
ti esploderà in faccia,
sulla tua faccia stanca e contratta dallo sforzo,
ti sfigurerà con le sue scintille laviche
ti trapasserà ogni tessuto come una bomba al napalm
finché di te non resterà
che un mucchietto di polvere.

lunedì 9 maggio 2016

Normalizzata irrealtà


Quando si nasce, tutto è una sorpresa continua.
Perfino un albero è una roba dell'altro mondo, anzi di questo, che è altro per chi arriva da quello uterino.
Poi si cresce e le cose che prima erano dell'altro mondo diventano normalissime, abituali, a volte anche banali.
Un albero è una roba che ne è pieno il mondo, anche se un po' meno di una volta.
Non ci si emoziona mica più davanti a un frondoso pioppo.

La legge dell'abitudine vale per tutto.

Anche per le cose veramente dell'altro mondo sebbene si trovino in questo, tipo l'omicidio.
Non che sia una grossa esperta in omicidio, ma penso che gente come gli amanti criminali, gli assassini della luna di miele, gli assassini nati e il giovane arrabbiato si siano abbastanza abituati all'idea di uccidere gente, anche se è qualcosa di pazzesco. Magari all'inizio faceva loro un po' di sgiai l'idea, ma poi è diventato routine.

Una cosa che nell'immaginario è irreale, per alcuni diventa così reale da sembrare normale.

Vale anche per attività meno macabre, tipo l'idea di poter prendere e fare 2000 km in bici. Al sol pensiero, ci si ritrova con un'impronta psicosomatica a forma di sellino sulle chiappe, ma quando ci si mette lì e lo si fa si nota che è una roba irrealizzabile. E non fa male a nessuno, anzi fa anche bene (almeno finché non si finisce sotto un tir pedalando o non ci si ritrova con la rotula sminuzzata).

E' un po' come trovarsi davanti alla vasca delle possibilità, non quelle accettabili, ma tutte.
Evenienze di ogni tipo, soprattutto quelle più lontane da se stessi, quelle che uno sente che ad aderirvi sarebbe estraneo al se stesso che è quando sta sul bordo della piscina. Nonostante ciò, c'è qualcosa, in te o intorno a te, o qualcuno che all'improvviso ti fa fare il salto. Ti tuffi, estirpandoti dal tuo habitat e dal tuo viaggio, trapiantandoti in un altro ecosistema, e riesci a tenerti in vita in quella giungla che non conosci, e non solo sei in grado di farlo, ma pian piano ti sembra normale nuotare in quelle acque, diventi capace di farlo.

Poi, nel momento in cui lo racconti, a te stesso o agli altri, inizi a trasformare i fatti, in modo direttamente proporzionale all'irrealtà di quello che hai fatto, in puro pensiero e puro ricordo. Il loro lento viaggio verso l'irrealtà sarà cominciato nello stesso momento in cui si sono verificati
Se si razionalizza troppo e subito, si finisce per fare puccetta nell'acqua della piscina in modo rapido e senza davvero abituarsi.
Anzi, se si riflette veramente tanto, non si immerge nemmeno la punta dell'alluce, perché la sensazione di irrealizzabilità nasce prima ancora del tuffo.

Tu che leggi ti dirai "Meno male, almeno uno non si mette a fare il killer".
 Ma i killer dei film erano assassini dentro, e avevano solo la caratteristica, nefasta in questo caso, rispetto ad altri potenziali assassini che hanno frenato l'impulso, di comportarsi in base a quello che sentivano.
Non si erano nemmeno estirpati dal loro habitat.
Non avevano provato l'ebbrezza di qualcosa che, parso prima irreale, una volta vissuto e provato, per quanto riconosciuto come un po' al di là della realtà prima conosciuta, si rivela più interessante, emozionante e arricchente di quello che si sarebbe potuto fare rimanendo pavidamente a bordo piscina ad osservare con cupidigia le possibilità galleggiare a filo d'acqua.
Che dici?
Che a bordo piscina ci si abbronza?
Questo è vero, ma ci si può ustionare.
Che dici anche?
Che pure immersi ci si ustiona? Che c'è il riverbero dell'acqua che riflette i raggi del sole facendoli rimbalzare sulla pelle come palline di flipper impazzite?
E va beh, allora, ustionarsi più ustionarsi meno, tanto vale farsi una bella nuotata.

sabato 7 maggio 2016

Il giusto grado di angoscia


Immagina una vita di pura serenità.
Tutto che va esattamente come avevi immaginato.
Non un'incrinatura.
Non un imprevisto.
Non una frenata.
Tu sorridi alla vita, la vita ti sorride di rimando.
A parte che a furia di sorridere poi ti vengono le rughe (ma nella vita perfetta non te ne fregherebbe niente, perché saresti comunque immerso in una continua pace dei sensi), dopo un po' ci si assuefà a tutto, pure a che vada tutto bene.
Ci si sveglierebbe al mattino senza curiosità, tanto si saprebbe già che andrebbe tutto bene.
Tutto come immaginato. Ma siamo poi così bravi ad immaginare?
Non ci sarebbero sorprese, né brutte né belle.
Anzi, se vogliamo fare un passo da serenità a felicità, ci sarebbero belle sorprese, a cui ci si abituerebbe talmente da non sorprendersi nemmeno più.
Una specie di assuefazione tipo quella che si ha con le droghe.
Del resto, la felicità è una perfetta droga.
Non si pensa più a soluzioni alternative: ci si siede in una poltrona di goduria imbottita di pace, e non si ha più alcuna necessità di industriarsi per risolvere problemi che, del resto,  non esistono.
Non ha senso pensare ad alternative, cambi di vita, giri di vite.
Ne servirebbero dosi sempre maggiori, in modo direttamente proporzionale al decremento della sua utilità marginale, per potersi emozionare.
Si creerebbe un mercato nero di felicità.
Il bene diventerebbe sempre più scarso, e molti dovrebbero accontentasi di quella serenità che alla lunga diventa noiosissima.
Fine delle sorprese derivanti dalla felicità: potrebbero permettersele solo i ricchi di nascita e i contrabbandieri.
I comuni mortali sarebbero condannati a una vita di serenità continua.

Ad un certo punto, però, qualcuno capirebbe che, tutto sommato, la giusta vita ha bisogno di una certa dose di infelicità, ansia, preoccupazione.
Il giusto grado di angoscia ti permette di pensare, industriarti, migliorarti, studiare strategie di uscita, sperare. Ti dà quella dose di adrenalina che ti contorce le budella, ti fa dimagrire anche se divori buoi interi immersi nella maionese, ti fa sentire vivo e al tempo stesso inconsapevole delle future evoluzioni della tua vita.
Il giusto grado d'angoscia non ti paralizza, ti sprona.
Combatte i contrabbandieri di felicità,
ne mette in cantiere una home made,
non vendibile,
personalizzata.
Una felicità
instabile
futura
ipotetica.
Ma tua.

giovedì 5 maggio 2016

Inerzia


La vita è tutt'un avanzare imperterrito.

Piano piano che il tempo passa, lei prende accelerazione sempre maggiore.
Ci si avvia verso una direzione spesso sempre più definita, circoscritta, chiara.
Abbiamo la sensazione di avere il controllo.

Si parte come guidando un camion di quelli che se li vedi per strada sono ridicoli, un muso senza il retro. Delle specie di Transformers intrasformabili perché troppo semplici e ridotti a unità base. I Transformers del bambino povero, che vorrebbe ma non può. Ma infatti all'inizio si E' il bambino povero. Non si ha ancora niente, nemmeno un rimorchio piccolo piccolo, nemmeno una merce insignificante appoggiata alla bell'e meglio su quel retro ridicolo che hanno le parti motrici dei camion quando sono prive di rimorchio.

Ma c'è già la forza motrice.

E con il potere di quest'ultima, si inizia a caricare roba.
Carica tu che carico io, più passa il tempo più si aggiungono rimorchi, merci dentro i rimorchi, rimorchi attaccati ai rimorchi, merci nei rimorchi attaccati ai rimorchi, fino a guidare un autoarticolato milleruotato impossibile da far circolare in certe strade, nelle città e in un sacco di altri posti.
Però non si è più il bambino povero, si è ricchi di merci, si è costruito tanto intorno a quella specie di aborto iniziale (ricordiamo però che quell'aborto è sempre quello che ha la forza motrice). Si può giocare con il Transformer da bambini ricchi, nei limiti delle combinazioni possibili tra rimorchi e merci.

Ad un certo punto il mezzo è formato, nella sua interezza, nella sua pienezza di merce. Da bambini ricchi, sempre più ricchi e sempre meno bambini, ci si può anche permettere di prendere un autista.
L'autista si mette a guidare il camion che, soprattutto in discesa, spinto dalla forza d'inerzia, va sempre più veloce.
Il camion avanza via via più in fretta con l'avanzare dell'età, ed è forse per questo che più il tempo passa più si ha la sensazione che le giornate passino veloci.
Non è una sensazione.
E' il camion carico che scivola giù dalla china della parabola della nostra vita.
A volte, però, arriva un momento in cui
l'autista

frena.

E' successo qualcosa di imprevisto, è cambiato qualcosa di sostanziale.
Pianta una di quelle frenate che a momenti il freno buca il fondo del mezzo e lui si ritrova con piede e pedale a stridere in scintille di attrito contro l'asfalto.
E il camion che fa?
Il camion va avanti
perché è ingombrante,
perché è pesantissimo,
perché è pieno di rimorchi uno dietro l'altro,
perché va velocissimo,
perché la forza d'inerzia è spropositata.
E mentre l'autista frena
noi ce ne stiamo nei rimorchi dietro,
andiamo avanti e indietro guardandoceli tutti soddisfatti,
ci diciamo che va tutto bene,
che siamo lanciati verso il futuro rassicurante
con tutto il nostro carico
definito da anni,
che se il camion va avanti da anni
andrà avanti per anni,
finché morte non sopraggiunga.
Non lo sappiamo,
non ci rendiamo conto
che il nostro camion sta già frenando
da un bel po' di tempo,
che sta già impercettibilmente rallentando.
Che si fermerà.
Solo questione
di
tempo.

Vedere
spaziotempo
ancora lì
quando in realtà è già
imploso
in un buco nero.

martedì 3 maggio 2016

L'importante, quando si educa, è avere le idee chiare


Caro alunno che mi chiedi perché ti sto affibiando una nota, sappi che te la scrivo perché io, come prof, devo farti capire quali sono i tuoi limiti.
Tutte noi, figure educative, siamo tenute a delimitarti, in modo che tu capisca fin dove puoi arrivare.

Dovrebbero farci dei corsi di limiti. Altro che BES, DSA, competenze. Dovremmo sapere tutti quanti che limiti darvi, magari in base a fasce d'età, limiti tutti uguali, in modo che non vi confondiate.
In modo che capiate l'ampiezza della palizzata che avete intorno. Una palizzata di tanti paletti uno vicino all'altro, che così non vedete più quello che c'è a lato, e magari anche un tettuccio sopra, anche lui fatto di tanti paletti uno vicino all'altro, che così non vi fate più accecare dalla luce del sole che, si sa, brucia la retina, non vi fate più ammaliare dalla luce delle ingannevoli stelle, né lunaticizzare da quella della cangiante luna.

L'educatore deve avere le idee chiare.
Solo così può educare.
E poi, si sa, i ragazzi hanno bisogno di regole.
Anzi, il loro comportamento mica tende alla libertà, è mirato a farsi mettere i famosi paletti.
I ragazzi vogliono i paletti.
Siamo noi educatori ad essere scemi se non gliene mettiamo.

Ma la famosa libertà? Non è che tutti questi limiti limitano la libertà?
Beh, ma tanto si è già detto e ripetuto che la libertà non esiste, no?
Può esserci una porzione di libertà, sì, ma non tutta. Ce ne può essere quella fettina illusoria che permette di aggirarsi nell'ambito della palizzata-cubo che si ha intorno.

Poi, l'educatore illuminato, quello proprio avanti, può ricordarsi del concetto di elasticità.
La libertà non esisterà, ma l'elasticità sì.
Piccole concessioni, ogni tanto si sposta un paletto dal tettuccio e si fa vedere una stellina.
Sì, anche perché che vita sarebbe una vita rigida e non-libera?!
Non-libera, però, è brutto da scrivere. L'opposto di non libera qual è?
Ah, sì. Occupata.
Ma l'occupazione non si fa quando si rivendica una certa dose di libertà?
Si occupa per essere liberi (fino a un certo punto).
Si è liberi di occupare (fino a un certo punto).

Ma poi, quando si ottiene questa risicata avara trasparente fettina di libertà, ci si ritrova comunque davanti i famosi limiti.
Tornano sempre, come i peggiori alieni.

Un limite, però, può tendere a infinito.
Ma un limite che tende a infinito diventa libertà totale?
Eh, no, mica è così semplice.
Il risultato di un limite che tenda a infinito può anche essere un misero intorno di un numero. E così ci si ritrova rinchiusi in una palizzatina con lato pari ad un intorno tendente a zero, dopo la grande illusione del limite tendente a infinito.
Può anche accadere che il limite che tende a infinito abbia come risultato infinito. Ma l'infinito è un artifizio matematico, un'invenzione di scienziati pazzi, perché non si può mai sapere se esiste veramente o no. Non si può nemmeno studiare all'infinito, perché tutto finisce, pure la vita. Si può sperare in una staffetta di cervelli, ma si può quasi scommettere che finirà pure quella.
E che dire di quando il limite tende a zero e il risultato è infinito?
Un bel gomitolo di opportunità.

Hai capito, alunno mio, che mi chiedi perché ti sto dando la nota?
Per questo.
Non hai capito?
Non è perché sei scemo,
è perché non ti applichi.