LE COSE CHE SCRIVO IN QUESTO BLOG SONO FRUTTO DELLA MIA FANTASIA (BACATA).
QUALSIASI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ESISTENTI E' CAUSALE.

sabato 30 aprile 2016

Tutto finisce


Quando facevo l'Università a Torino c'era questo cinema appiccicato alla casa dove vivevo. 
Era un periodo in cui la città sembrava 
enorme, 
sconosciuta, 
minacciosa, 
girovagabile soltanto in autobus,
soltanto su alcune linee. 

All'epoca la città era la stazione, il tratto di portici stazione-casa, la casa, anche lei altrui, piuttosto austera e da scoprire, quello che si vedeva sfilacciato dai finestrini dei mezzi pubblici in movimento, attraverso le teste e i pezzi di corpo delle persone ammassate con me lì sopra, e i dintorni della facoltà, che si trovava in un punto dai dintorni disadorni. 

Se volevi evadere, però, facevi due passi e ti trovavi davanti al cinema Arlecchino. Entravi, ti sedevi e all'improvviso eri proiettato per un'ora e mezza o due in un altro mondo, dove non c'erano esami, autobus affollati, città che ti osservavano attraverso i finestrini mentre eri inscatolato dentro l'autobus e ti trovavano troppo sprovveduto per poterti permettere di scoprirle più di così. 

E' chiaro che uno, a un cinema così, si affeziona. 
Si affeziona al punto tale da cercarsi, lustri dopo, una casa proprio lì vicino, che così scende ed è già praticamente seduto in sala. Se compra un gelato fuori, riesce pure a gustarselo durante l'inizio del film.

Poi, all'improvviso, il cinema chiude
Proprio dopo che si è comprata la casa.
Tipica legge di Murphy.
Le biglietterie vuote, ancora intatte se viste appoggiando il naso al vetro e mettendo le mani a conca a lato degli occhi, sono circondate da un night club che avvolge le sale, ancora com'erano, con le sue piste da ballo. 
Quando si passa là davanti, si ha un sussulto. 
Negli alloggiamenti delle locandine compaiono manifesti colorati. 
Ci si gira con una nostalgica speranza che accende i ricordi. 
Ma no, è solo la pubblicità di una serata a tema del night. 

Perché le città crescono, si evolvono, 
si rigenerano sugli strati sepolti delle epoche precedenti.
Si disegnano e poi si ridisegnano
A volte in modo indimenticabile. 
Altre in modo dimenticabile.  
Ma poi si ridisegnano ancora, e ancora, e ancora,
e dei disegni precedenti non restano che i ricordi. 
Quelli indimenticabili. 

giovedì 28 aprile 2016

Cicli di vita sovrapposti in strati sfasati


Il Marketing ci insegna che un prodotto ha una curva di vita più o meno parabolica.

Un prodotto, si sa, è un oggetto, però, anche se noi siamo esseri viventi muniti di anima, cuore, cervello, sangue che gira, polmoni che si riempiono e svuotano d'aria, abbiamo un ciclo di vita abbastanza simile a questo:

Appena nati siamo delle specie di nullità, nel senso che non sappiamo un tubo, abbiamo un abbozzo di istinto che è talmente abbozzato da far sì che senza i genitori moriamo.
Poi, pian pianino, cresciamo e diventiamo sempre più performanti, ognuno con un massimo di altezza diverso rispetto all'asse delle ordinate (in cui al posto delle vendite ci sarà il valore umano), con curvatura più o meno pronunciata, il tutto in base a criteri del tutto slegati da logica, merito o considerazioni legati a un vago concetto di giustizia che avvelena le menti appena sopraggiunge la possibilità di pensare.
Invariabilmente, però, per quanto si salga, prima o poi si scenderà anche. Corpo obsolescente, cervello spoglio di neuroni come un albero stecchito che si staglia contro il grigio cielo novembrino. Il prodotto può essere rivitalizzato, l'uomo non molto. Si può mettere una pezza: tirare la pelle, la donna si può mettere due airbag in silicone al posto delle tette (nel senso che loro se ne sono proprio andate, dove non si sa), il cervello proprio no, al massimo si può tenere in allenamento sempre, ma rivitalizzare a 80 anni no. Se è andato, è andato. Non c'è cerebrochirurgo che regga.

Il fatto è che, dato che gli uomini amano riprodursi, ci sono più parabole che si sovrappongono in una famiglia. Quando due genitori hanno un figlio, loro sono (si spera) verso il massimo, o perlomeno in salita, il figlio è a zero.
Questo fa sì che, per quanto poca pendenza ci sia nella loro salita, per quanto basso sia il massimo rispetto all'asse delle ordinate, per il figlio loro saranno dei miti, perché lui sarà come la mosca nella bottiglia di La Capria. Vedrà solo loro, e loro saranno il suo modello.
Quindi, per lui, solo per lui, loro saranno dei fighi megafighi supereroi quasi come quello che chiamavano Jeeg Robot.
Anche se viene pestato a sangue, sono loro i riferimenti, e in fondo crederà che pestarlo a sangue sia l'idea migliore. 
Se non lo pestano neanche talmente poco se ne occupano, va ancora peggio.

Poi la mosca, spesso e auspicabilmente, riesce a uscire dalla bottiglia, si guarda intorno, si documenta, vede che i suoi genitori fanno cose assurde tipo votare Renzi, in ragione delle quali il modello si incrina, s'affloscia, e poi, prima o poi, crolla miserabilmente o si assesta su livelli più bassi rispetto all'ordinata in base di quel punto della parabola del figlio stesso. Ciò per consolidare il fatto che la specie sia in evoluzione (magari non capìta dagli avi per via della velocità e diversità di abilità rispetto al passato) e siamo pur sempre nani sulle spalle dei giganti, e quindi ci venga più facile andare un po' più su.
E così, la parabola dei genitori vista dai figli prima sale molto di più o si trova decisamente più su del reale, poi raggiunge apici irreali, quindi crolla assai più in fretta di quanto non lo faccia quella effettiva.
Della supremazia del genitore rispetto a tutto il resto del mondo rimangono solo le turbe derivate dall'immancabile scostamento tra l'idea che aveva il figlio di loro nell'età della sragione e la realtà.
Quanto più è ampia la forbice
tanto più traumatizzati sono i figli.
Che poi crescono e diventano a loro volta
(quasi sempre) adulti
a volte (tante) perfino genitori.
Comunque è bello dare la colpa di tutto ai genitori ormai obsoleti e rinsecchiti.
Scarica un sacco e fa risparmiare un sacco di soldi dallo psicologo.
Che, a sua volta,
darà la colpa ai rinsecchiti e obsoleti genitori.
Ma si farà pagare.
Con i soldi dei genitori.
Ché i giovani d'oggi mica li hanno, i soldi per pagarsi lo psicologo.
E se se li fanno dare dai genitori,
si sa,
non funziona.
Se invece pagano di tasca propria,
si sa,
non funziona neppure. 

lunedì 25 aprile 2016

Contrapasso professionale


"Mettete via questi maledetti cellulari!"
Quante volte lo hai detto agli studenti.
Loro niente, continuano imperterriti a fissare lo schermo con espressione assorta, esuli dal mondo che li circonda, focalizzati con un'attenzione conica che converge sul monitor dello smartphone.
Puoi minacciarli di sospensione immediata, di espulsione dalla finestra con catapulta elastica, di interdizione perenne dalla fruizione di aule scolastiche. Non esisti per loro, la loro attenzione è integralmente catalizzata dal catalizzatore di attenzione per eccellenza.
E allora vorresti essere lì dentro, uscire in 4D dal loro monitor, con tanto di lapilli saliviferi ad ogni parola, dire loro "Ahoo, sono qui, sei a scuola, io sono la tua prof del momento, quella che ti può aprire il cervello verso nuovi orizzonti per te insperati, se solo mi potessi ascoltare".
Puoi inventarti qualsiasi frase ad effetto, qualsiasi tipo di lezione interattiva, qualsiasi accattivante battuta, niente vale a farli distogliere dal monitor.
Non ti vedono neppure.
Tu ti indigni, ti chiedi come sia possibile, prendi per il codino sopra la testa l'alunno che ha il bollino rosso sulla fronte a furia di stare con la fronte poggiata sul banco a consultare lo smartphone, gomiti sulle ginocchia, telefono sotto il banco. Rischi una denuncia per tentativo di estrazione scalpo da un minorenne. Ma niente, qualsiasi tuo sforzo è invano.

Poi ti ritrovi a fruire di un corso. Sei tu l'alunno. Un alunno prof, ma pur sempre un alunno. Sei seduto a una sedia di una bella aula magna piena zeppa di tuoi compagni di sventura. La lezione è anche interessante, per carità, ma come si fa a non consultare se per caso è arrivato un messaggino su whatsapp, telegram, mail? E se fosse questione di vita o di morte? E se la tua futura vita dipendesse da questo messaggino? E poi, beh, un bel libro di lettura non guasta. Apparecchi le tue ginocchia con smartphone in modalità silenziosa e sopra il romanzo, con tanto di matita per sottolineare le parti interessanti. E poi, quando c'è una parte interessante, che fai? Non la fotografi per condividerla con chi merita? E così, lo stimato prof, durante una lectio magistralis in aula magna, si alza in piedi, totalmente preso dal pensiero di mettere a fuoco la pagina per condividerla al meglio.
Si contorce per beccare la migliore inquadratura.
Osserva il cellulare, rapito con attenzione conoidale
dal monitor.
Manda l'immagine con un sorriso di soddisfazione per nulla velato.
Poi si gira.

Si ritrova in piedi,
con il residuo sorriso che si estingue lentamente,
 a constatare che il relatore si è zittito,
che lui è ritto in mezzo all'aula magna,
che gli occhi di tutti i presenti sono puntati su di lui,
che i capi si scuotono in segno di disapprovazione,
che i relatori vorrebbero dirgli
"Metta via questo maledetto cellulare!"
ma non possono, perché lui è un prof,
perché sarebbe grottesco sminuire così la sua presunta professionalità.

Si siede.
S guarda intorno costernato.
Mette una mano a lato mento,
l'indice in su e le altre dita in orizzontale,
osserva le slide proiettate
con finta attenzione.

Intanto pensa a un modo per venire incontro agli alunni smartphonedipendenti.
Ché i tempi cambiano.
Dagli alunni di oggi non si può pretendere
ciò che si poteva pretendere da quelli di ieri.
Si può e deve pretendere di più.
Ma nel modo giusto.
Quello adatto.

sabato 23 aprile 2016

Città ridisegnata


Le città sono spesso grandi e piene di immobili persone strade monumenti.

Quando uno arriva in una città, ed è nuovo del posto, tutto sembra
grande
- più grande -
e strano
- più strano -
e da capire
- più da capire -
e da scoprire
- più da scoprire -,
anche un po' minaccioso
- più minaccioso-.

Ora il lettore si chiederà: ma più di cosa?
Ché gli sembra di leggere quelle pubblicità tipo biscotti light: 30 % di grassi in meno, ma in meno di che? Della media dei biscotti dello stesso tipo sul mercato. Facilmente documentabile.
Qui è uguale.
Più della media.
Più della media di quanto la città non sia grande, e strana, e da capire, e da scoprire, e minacciosa per tutti i suoi abitanti, vecchi e nuovi.

Poi la città si vive, si scopre, si capisce, si interpreta.
La si conosce attraverso le ineliminabili lenti della propria soggettività.
Si impara ad amarla, per quanto odiosa - o meno -  possa essere.
E' come quando ti impossessi di una casa.
Foss'anche una cella, è la tua.

Con il tempo, si assume una tale familiarità con la città che mentre ci si aggira
la si riconosce,
le si dà del tu,
ci si sente a proprio agio,
talmente a proprio agio da sentirsi a casa in ogni suo angolo o quasi.
Perlomeno ci si sente a casa nei propri percorsi, che con il tempo hanno descritto una trama talmente fitta sulle strade e sotto i cieli da renderla una ragnatela densa come un bozzolo.

E allora
non resta che andarsene,
trovare una città nuova
che ci spaventi
disorienti
minacci
incuriosisca
ci sembri grande
si lasci scoprire piano piano
trasformi stranezze in fattezze.

E poi
"Non si ritorna dove si è stati felici una volta". 
Questa la scrisse un suicida, scrittore.

O forse invece alla fine ci si torna.
E se il nostalgico tornasse e se se se se e se...
casa sua sarebbe lì. 

giovedì 21 aprile 2016

Corsa psicosomatica


Quando uno fa jogging, si sottopone a una certa qual fatica, che perdura per tutto il percorso, con ammortamenti a rate costanti, crescenti o decrescenti.
Il punto focale è però che, con il passare del tempo e il progredire dell'allenamento, la fatica globale, corsa dopo corsa, diminuisce.
Se uno è talmente abituato a correre che è diventato un'abitudine, si metterà lì e farà il suo percorso pensando ai fatti suoi, come se nulla fosse. Come se si stesse lavando i denti o mettendo la cintura di sicurezza.

Poi arriva un giorno in cui succede qualcosa di bellissimo nella vita,
e la corsa diventa leggera,
 è come se le suole non toccassero il terreno e si fluttuasse su un cuscinetto magnetico come l'ottovolante di Mirabilandia,
come se le gambe girassero da sole e si fosse proiettati da una forza sconosciuta eppure a noi appartenente verso una velocità mai pensata,
come se il proprio corpo non avesse criticità e fosse un sistema perfettamente funzionante,
come se si fosse in un posto dove la forza di gravità è molto più bassa, che so su Venere, sulla Luna no perché poi a ogni falcata si volteggerebbe in modo incontrollato nell'aria e addio velocità. Bellissima, l'euforia del podista derivante dall'euforia vitale. Una proiezione della vita nel ritmo della corsa, che diventa simbolica e misticamente psicosomatica.

Poi, un giorno,
succede una cosa bruttissima,
o quella bellissima cessa nel solito modo stronzo, d'un botto,
che è quasi come la cosa bruttissima,
con la differenza che si conosce il sapore di quella bellissima,
e quindi direi che è fin peggio.

Ci si dice che si può correre per sublimare il male,
e a volte funziona pure, e si va come se si avessero i talloni a razzo,
dolore in movimento a velocità direttamente proporzionale al male,

ma ci sono volte in cui la corsa invece diventa pesante,
il proprio corpo gravoso
come se si fosse su Giove,
come se si avesse qualcuno appollaiato sulle spalle,
- forse un prof di sostegno sadico e grasso,
ché si sa che i prof di sostegno si appollaiano,
e alla faccia del sostenere
a volte affossano -,
le gambe doloranti rendono ogni falcata un passo faticosamente sospeso verso l'inferno,
il fiato diventa denso liquame, non passa più attraverso i bronchi ripiegati sul proprio dolore,
non c'è spruzzino pro-doping che regga,
perché il dolore broncoimplodente vince sullo spruzzo broncodilatante,
perché il cervello telecomanda tutto il corpo,
anche con la programmazione a distanza
di un cuore sclerato.

martedì 19 aprile 2016

Chiedere scusa


Quando si dice che dopo i trent'anni si smettono di fare cose nuove, non si pensa alle molteplici opportunità che offre la vita stessa, anche se non si fa niente di straordinario, anche se ci si limita a scorrazzare per i parchi e le aree pedonali della propria città, porgendo le proprie carni primaverilmente scoperte alle fauci di cani sguinzagliati e saltellanti.
E così, primavera dopo primavera, nuove sorprese colgono l'ultratrentenne, ma anche l'ultraquarantenne, e pure l'ultrasessantenne proprietaria di cane mordente. 
Costei, secondo copione di fossilizzazione legata all'età, era convinta di essere dal lato della ragione quando il suo cane libero in un'isola pedonale ha affondato le fauci dietro il ginocchio di un'ignara jogger, probabilmente scambiata per un'alce. La colpa, secondo la signora, era della persona che si era fatta mordere dal suo dolce cagnolino. Si vede che gli risultava antipatica. Due anni fa, dopo aver omesso soccorso per correre dietro al quadrupede in fuga, aveva cercato di evitare la dichiarazione di cane mordente asportando a peso la morsicata dal Pronto soccorso, di non farle fare querela in quanto "lei aveva amici nella polizia". Dato che lo snack umano aveva preferito invece seguire tutta la trafila, aveva tentato in tutti i modi di far cancellare la querela per il suo comportamento allucinante, con le buone e con le cattive, alternando carota (mielose e falsissime richieste) e bastone (insulti che mi aspetterei più da qualche alunno bullo che da una facoltosa signora della Crocetta, affermazioni del tipo "lei non sa chi sono io"). Incartapecorita sulle sue posizioni secondo le quali lei è nella ragione comunque, anche se vedesse il suo jack russell con in bocca lo stinco di un quattrenne strappato dal corpo e sprizzante sangue a fiotti regolari, la signora ha continuato a portare a passeggio il bel cagnetto senza guinzaglio, nel solito posto.
 
Sorpresa alle soglie dei settanta, una bella chiamata dal Giudice di pace per avvio di processo penale. 
Eppure l'assicurazione ha risarcito il danno civile. 
E così la quasi settuagenaria, alla sua veneranda età, si procura un Avvocato (donna, questo è decisamente un post per le quote rosa), si alza un bel mattino all'alba, attraversa mezza Torino e si ritrova in un'aula davanti alla parte offesa. 
Deve comunicare i suoi dati e rendersi conto di avere un processo penale che le pende sulla testa. 
Afferma sorridendo "figurarsi, io nel penale? Mai successo". 
Ora sì, cara signora, le viene detto dal Giudice (donna). 
Anche tra i sessanta e i settanta si può provare l'ebbrezza della novità assoluta. 
Davanti al Giudice, l'offesa viene interpellata su ciò che vuole, con stupore che non sia accompagnata da un Avvocato, come tutti i presenti a tutti gli altri processi. 
Lei dice che non vuole soldi, vuole solo che la signora chieda scusa e prometta di tenere il cane al guinzaglio. 
I soldi sono più comodi, soprattutto se se ne hanno a palate. 
Chiedere scusa, invece, è faticosissimo. 
E' più facile insultare, ma davanti alla legge non si può. 
E così, bisogna ingoiare il sangue amaro che i soldi non possono drenare. 
C si deve alzare, schiarire la voce e dire un "Chiedo scusa" tra i denti. 
Il tutto davanti a una marea umana che, essendo  lì solo per i soldi, sorride, non si capacita che qualcuno si sbatta tanto per ricevere delle scuse. Sincere mai, ma spinte nello spazio interdentale con tali fatica e costrizione da essere impagabili. 
Baratto tra umiliante umiliazione e uscita dalla penalità. 
"Assurdo, assurdo", sibila tra i denti la signora, mentre il suo Avvocato cerca di zittirla. 
Assurdo ma vero. 
Anche a 70 anni si può imparare qualcosa.
Con le buone o con le cattive. 
E senza pagare. 
Soldi. 

venerdì 15 aprile 2016

Umiliante post umile


Beati gli umili perché succederà loro qualcosa di bello che ora non ricordo.
Lo diceva uno della Trinità divina cattolica, non so più bene chi dei tre, perché dalle mie ecclesistiche frequentazioni è passato un po' di tempo e non sono ferratissima in Teologia, ma mi pare comunque di ricordare che fossero tutti e tre uno solo, quindi come citazione direi che va bene.
Il fatto è che quando sentivo ste parole a messa o le leggevo su qualche libretto che mi veniva propinato al catechismo mi dicevo che non fosse una grande idea, che ad essere umili non si arriva da nessuna parte.
Poi, con il passare del tempo, l'imbiancare dei capelli, l'inflaccidirsi della pelle, ho iniziato a pensare che invece quello della Trinità ne sapesse una più del diavolo.

Infatti, se uno ci pensa, umile è diverso da umiliato.

L'umile è colui che esercita umiltà, in modo che definirei riflessivo. Umile è chi guarda se stesso senza presunzione e preconcetti, cerca di capire in primis se ha sbagliato, e poi se essere orgogliosi sia veramente la soluzione più efficiente ed efficace. Se uno decide di umiliarsi, lo fa con consapevolezza. Se uno decide di umiliarsi, già non si sente così minacciato da ciò che sta facendo.
E' un po' come quando si prende una storta. Si può reagire accompagnandola, oppure opponendovi resistenza orgogliosa. Nel primo caso non ci si fa tantissimo male, quindi si reagisce in modo efficiente ed efficace. Nel secondo, si rischia di farsi malissimo e di prendersi una distorsione o peggio di spaccarsi i legamenti, con conseguente lievitazione della caviglia fino ad avere un palloncino al posto del'articolazione. Un palloncino gonfiato.
L'umile consapevole è uno che capisce che è più strategico piegarsi come una canna piuttosto che stare rigidi come una quercia a farsi spezzare i rami o peggio il tronco dall'uragano. Tanto sa che poi si ridrizzerà.

L'umiliato, invece, è colui che subisce un'umiliazione. Qui non c'è nulla di riflessivo, c'è qualcuno che compie un'azione verso qualcun altro. E l'azione è quella di affossamento.
Lì sì che è brutto.
A volte.
Non sempre, però.

Se l'umiliato riesce ad assecondare l'umiliante, poi può riprenderlo e ritorcere la sua azione contro di lui. Un po' come insegnano al corso di autodifesa. Prendi l'umiliante, lo spiazzi accompagnando l'attacco, e poi gli sbatti addosso una bella umiltà potente ed efficace. Sarà facile vederlo stramazzare al suolo.
Umile umiliazione, come quando a calcio ti arriva addosso un energumeno di centicinquanta chili e affonda con tutta la sua possenza sulla tua caviglia. Se opponi resistenza sei fritto. Ti squarcia caviglia crociato menisco e chi più ne ha più ne metta. Immobilità nervoso ortopedici incazzatura operazioni frustrazione riabilitazione appallamento. Grande umiliazione con umilianti ripercussioni sull'orgoglio oppositivo con cui si era deciso che una caviglia fatta d'ossa tendini sangue e carne potesse resistere all'impeto di un quintale e mezzo tacchettodotato.

Nel film "Mister Chocolat", il protagonista è un esempio di umiliata umiltà, che di solito non dovrebbe esistere, perché alla fin fine l'umiltà non è mai umiliata, anzi è una roba da figo, da persona che non si caga in mano a mollare un attimo le redini e a perdere il controllo perché sa di avere la padronanza di poterlo mantenere, di recuperarlo in volo o al balzo dopo un po'.
E' una roba da chi, quando si accorge che sta sbagliando o ha sbagliato, corregge il tiro dopo aver detto "Ok, sto sbagliando/ho sbagliato".
Poi risbaglia, e lo ricapisce, ririsbaglia e lo riricapisce ancora, avanti così.
Alla fine muore.
Va beh, finale triste, ma mica possono vivere tutti sempre felici e contenti, e per sempre.
Sarebbe pure noioso.
Tornando al nostro Chocolat, lui non voleva essere umiliato, eppure all'inizio accettava di esserlo, per gioco. Teneva presente che scena è una finzione. E all'inizio era furbescamente umile.
Fare il selvaggio mi fa guadagnare? E io lo faccio.
Fare quello che riceve calci nel sedere mi fa guadagnare? E io lo faccio.
Poi il tempo passa (e i capelli imbiancano, e la pelle si inflaccidisce, eccetera eccetera) e uno perde l'abilità di prendersi un po' in giro, bonariamente.
Uno perde la fanciullesca capacità di ridere di se stesso e di vedersi dall'alto, con leggerezza.
Tutto diventa pesante, anche la finzione, anche ciò che ci dà da vivere, e da vivere alla grande.
Uno si arrovella su principi che orgogliosamente porta avanti diventando cieco a ciò che è meglio, a ciò che gli conviene, e a volte perfino a ciò che è.
Con pesantezza si gioca tutto, ma la pesantezza, si sa,
è difficile da sostenere,
 e infatti non si sostiene,
e si precipita giù trascinati dal proprio orgoglio,
dalla propria pesantezza,
giù fino alla rovina definitiva.
L'umiliata umiltà di Chocolat è un ossimoro in termini, fa cadere dalle stelle non riconosciute alle stalle, ben identificate quando ormai è troppo tardi.
Meglio umiliarsi.
E' meno umiliante.

martedì 12 aprile 2016

Dimmi che macchina hai e...


Il rapporto della gente con l'auto posseduta è molteplice.

Si possono notare personaggi che la curano più della loro stessa vita, lavandola con prodotti non aggressivi e acqua osmotica più di quanto non si facciano la doccia, andandola a trovare nel garage bellissimo il cui affitto è superiore a quello della casa in cui vivono.
Tra questi non c'è il ricco che ha la macchina figa, status symbol: lui generalmente va a farsela lavare dall'autista e, a meno che non parcheggi in una villa sventrata e trasformata in garage enorme, spende di più per se stesso che per l'automobile.
Gli appartenenti alla categoria di cui più su di solito si sacrificano per la macchina. Magari abitano in un tugurio ma hanno l'auto figa, perlomeno ai loro occhi, dato che nella più rosea delle ipotesi è tenuemente sportiva, nella meno rosea tamarrissima, con tuning estremo. Se si entra nell'abitacolo, i sedili di pelle profumano di ciclamino, e sono sempre lucidissimi. La polvere pare non aver mai nemmeno sfiorato il cruscotto. Quando si sporcherà, sarà perché il proprietario avrà esagerato con il potenziamento,  il mezzo si sarà alzato in volo e si sarà schiantato contro un albero, conficcandosi poi, accartocciato, in un terrosissimo prato o precipizio.

Ma i più fanatici della pulizia interna sono generalmente i proprietari di macchine nuove. La cura maniacale con cui cercano di mantenerle pulite e decenti il più possibile li fa diventare ossessivi, sia sugli esterni sia sugli interni. Righine, fango, starnuti che si espandono in un cono di invisibili ma macchianti pulviscoli acquei fanno inorridire gli autisti. Se si deve salire sulla loro auto, ci si deve coprire tutto il corpo per evitare di lasciare materiale epiteliale sui sedili (generalmente hanno nel baule quattro tute con cui dotare i passeggeri), mettere un giornale sotto le suole delle scarpe, parlare poco, respirare il meno possibile. Fortunatamente, la maniacalità, nella maggior parte delle persone, è inversamente proporzionale all'età del veicolo, e solitamente se ne ha un'impennata negativa verticale quando il guidatore lancia a catapulta con il dito la prima caccola in direzione random attraverso l'abitacolo, dopo essersi ispezionato accuratamente il naso durante l'attesa per un semaforo rosso.

Ci sono poi quelli che non hanno mai lavato la macchina da quando la possiedono, che ogni volta che qualcuno gliela bomba facendo manovre o che un camion entra nella portiera dell'auto parcheggiata, ammaccandola e poi scappando, alzano debolmente una spalla e continuano imperterriti a circolare su un aggregato di ferraglia che difficilmente si identifica con un'automobile per eccessiva deformazione rispetto alla silhouette originale. Non la portano mai dal meccanico, a meno che non se ne lascino un pezzo ingente indietro, in mezzo alla strada, o si fermi, di solito in mezzo a un'autostrada a 5 o 6 corsie.
Gli interni sono corrispondenti agli esterni. Se si sbattessero i tappetini si otterrebbe una montagna di ghiaia pari a quella della cava di Susa. Il parabrezza sembra un ologramma, tante ditate ha su all'interno, e all'esterno ha stratificazioni di residui di piogge acide preistoriche. La polvere copre in coltri grigiastre il cruscotto, che perde le consuete forme per assumere l'apparenza di un territorio innevato in un luogo molto inquinato. Quando qualcuno deve sedersi, solitamente non riesce perché la quantità di oggetti che nulla c'entrano con un'automobile ingombra ogni centimetro cubo libero. Quando il guidatore lancia i suddetti oggetti sui sedili dietro, incastrandoli secondo complessi algoritmi in quelli già presenti, chi si deve accomodare apprezzerà il coprisedile fatto di apparenti copertine di CD. Ma non sarà un coprisedile, saranno davvero copertine di CD. Alla fine ci si siederà sopra, sentendo sotto le chiappe la croccantezza della plastica che cederà un po' a ogni sobbalzo. I piedi saranno appoggiati su strati di carta ammassata al suolo, per motivi decisamente diversi rispetto a quelli del proprietario dell'auto nuova. La sua permanenza nell'auto sarà comunque di breve durata, perché quasi immediatamente si romperà qualcosa e saranno costretti a spingerla dal primo meccanico (tutto sommato, non è che questo tipo di auto finisca in carrozzeria così di rado).

C'è poi l'automobile accogliente, così decorata con serie di pupazzetti ventosati e pelouche giganti e cuscini a forma di cuore rosa (per le donne) e animaletti con i colori della squadra del cuore (per gli uomini) da tranquillizzare il passeggero sulla funzionalità degli air-bag. Del resto, sarà molto probabile che quest'ultima vada testata, vista la visibilità azzerata dovuta all'accozzaglia di cianfrusaglie appese allo specchietto retrovisore centrale.

Non dimentichiamo quelli che la macchina proprio non ce l'hanno. Non ne hanno proprio bisogno, ma perchè mai uno dovrebbe sentire la necessità di un'auto?  Per questo utilizzano il car sharing e il friend demanding.
Per quanto riguarda il car sharing, l'importante è non sentirsi troppo "a macchina propria", onde evitare di prenderne possesso inserendo il cellulare in una tasca, il portafoglio in un'altra, scendere dall'auto e ricordarsene quando ormai è già stata presa in prestito da altre otto persone. Segue caccia al tesoro, ma senza l'aiuto della app che si trova appunto in macchina. E' divertente anche quando il contaprezzo non smette di girare alla deposizione del mezzo e ci si ritrova l'addebito corrispondente all'acquisto di una Porche Cayenne.
Nel friend demanding, invece, è importante evitare di lamentarsi se il friend in questione è uno di quelli che circolano sull'aggregato di lamiera accartocciata: frasi come "la tua macchina è una bara ambulante" o, peggio, "il tuo carcassone mi ha abbandonato in mezzo all'autostrada a 5 corsie" potrebbero essere mal tollerate dal prestante. Soprattutto nel secondo caso. Soprattutto se il corollario è l'abbandono dell'auto ormai gravemente incidentata. Nel caso della macchina pelouchosa prestata, a parte il fatto che converrà non farci salire nessuno per preservare la propria immagine, sarà bene portarsi dei tergicristalli interni, per avere una minima visibilità. I casi della macchina nuova e di quella tuningata non si analizzano perché è del tutto irreale che avvenga il prestito.

Alla fine di questa carrellata, si potrà pensare alle personalità dei proprietari.
Volete saperle?
Volete gli abbinamenti?
Rivolgetevi a "Cosmopolitan", test: "Dimmi che macchina hai e ti dirò chi sei".
Nella vita non è così.
"Dimmi che macchina hai e continuerò a non sapere chi sei, a meno che non decida di mettermi lì e cercare di conoscerti".

domenica 10 aprile 2016

Disorientamento multidirezionale


Sono alla lavagna e cerco di spiegare il modo più rapido per risolvere un'espressione a un nugolo di alunni inferociti che mi assalgono a colpi di cancellino e osservazioni disperate.
"Ma prof...lei ci confonde!", dicono, e intanto cancellano la mia soluzione, perché ai loro occhi è troppo strana. 
"Ma cercate di ragionare...guardate qui i passaggi", e cerco di esplicitare ogni ragionamento in un modo che ritengo di chiarezza cristallina.
"No, prof, non capiamo niente, se fa i passaggi ci confonde, noi troviamo più facile fare tutto a mente" e via di colpi di cancellino e assalto fisico di gruppo mentre cerco di proteggere la mia creazione facendo da scudo umano alla lavagna.
"Ma non vedete che sbagliate tutti i segni, e oltretutto scegliete la via più lunga, in modo da garantirvi il maggior numero possibile di errori?!?" Ormai sono alla fine delle mie energie protettive.
"Prof, cosa vuol dire la via più lunga? Intende dire che ci sono più modi per arrivare alla soluzione? Ma l'altra prof dice che ce n'è una sola". Vedo il terrore nei loro occhi. 
L'idea che ci siano più strade percorribili per poter aver risultati soddisfacenti è inarrivabile per loro. 
La situazione, in questo modo, si prospetta troppo complicata.
La via giusta dev'essere una.
Chiara.
Semplice. 
Se li disoriento sono degenere. 
Come la vita, a volte. 

giovedì 7 aprile 2016

Merda gratis


Quando c'è qualcosa di gratis, fosse anche merda, la gente si raduna in una fiumana umana, spasimando per ottenerlo.
Merda gratis, bellissimo, la voglio.
Poco importa che ognuno ne sia produttore gratuitamente (insomma, più o meno, perché la spesa per il cibo necessario alla produzione costa). Le proprie proprietà non sono mai così interessanti come quelle altrui. Meglio quelle altrui, soprattutto se gratis.
Se poi non si può avere gratis, allora, l'altro modo che fa sì che uno la desideri spasmodicamente, che non possa vivere senza, è farla pagare tantissimo.
Se una cosa è carissima, suscita la stessa intensità di desiderio che se fosse gratis.
Meccanismi diversi, ma sempre perversi.
L'unica cosa che non stimola il desiderio è il prezzo giusto.
E poi la gente dice di avere sete di giustizia.
Si fosse consapevoli di quello che si vuole
e non pilotati da chissà che sventolatore di banderuola
si sarebbe già a metà dell'opera.
Che opera?
Boh...

martedì 5 aprile 2016

Lontano dagli occhi


Al parco del Valentino una volta c'erano tutti scoiattoli rossi, ed era una cosa normale.
Ad un certo punto sono arrivati quelli grigi americani, è uscito un putiferio, si è parlato di razza aliena che avrebbe causato l'estinzione di quelli rossi indigeni, il Sindaco voleva addirittura mettere su una bella caccia allo scoiattolo grigio.
Adesso, dopo un po' di anni, al parco ci sono solo scoiattoli grigi. Scoiattoli grigi sugli alberi, scoiattoli grigi sotto i piedi mentre corri, scoiattoli grigi nei prati, scoiattoli grigi sulle rive del Po.
E gli scoiattoli rossi? Dove sono? Perché nessuno se ne preoccupa più?
Semplice, perché tutti li hanno dimenticati.
Lontano dagli occhi, lontano dalla mente, figurarsi dal cuore.
Si fa caso solo a quello che è sotto gli occhi.
E così il corridore che corre al Valentino ormai vede st'ammasso di alieni indigenizzati e non si fa più domande, non si dà nemmeno giustificazioni come "Tutto sommato questi sono più carini", "Il rosso non va più di moda", "Questi sono meno spelacchiati".
Quello che conta è ciò che ci viene messo sotto gli occhi.
Tutto il resto sparisce.
Non esiste più.
Facile deviare l'opinione, pubblica o privata che sia.
Basta scegliere sapientemente cosa metterle sotto il naso.
Il pubblico è un ammasso di caproni che corrono in mezzo agli scoiattoli.
Grigi.

sabato 2 aprile 2016

Schiantarsi, rischiantarsi e schiantarsi ancora


Uno si compra una bella casa, si fa montare delle finestre nuove, ci fa mettere dei vetri antisfondamento antirumore che facciano passare la luce e chi più ne ha più ne metta.
Come prima cosa, pulisce tutti i vetri, che diventano trasparentissimi.
Il piccione pirla arriva sparato nei pressi della finestra nuova e non vede il vetro.
 Ci si spiaccica su con un rumore sordo.
TUM.
Ci sta.
Vetro pulito.
Nuovo.
Ci sta.

Il tempo passa, e il vetro si copre di patine di smog, sporcizia, oltre che delle impronte dei piccioni con tanto di silhouette delle ossa rotte sottopiuma. Il vetro ora è chiaramente vetro, ha assunto tutta la sua durezza e presenza anche a vederlo. Eppure il piccione doppiamente pirla ci si schianta contro lo stesso, imprimendo quelle ulteriori impronte volatiliformi che fanno tanto arte contemporanea.

Essere doppiamente pirla è una brutta cosa, ma può capitare.
L'incomprensibile è come faccia il piccione in questione a schiantarsi contro la finestra anche a persiane chiuse. Invece di lasciare lui l'impronta sul vetro, viene grigliato dalle listarelle in legno, con effetto bistecca ai ferri.
Ma a schiantarsi contro una persiana bisogna veramente essere più stupidi di quanto sia concesso a un piccione.
Si vede che era uno di quei piccioni filosofi, che viaggiano con la testa tra le nuvole, immersi nel loro mondo parallelo, pieno di cose diverse da vetri puliti, sporchi o persianificati.
Mette il pilota automatico e tiene la rotta, dimentico degli insegnamento pregressi.
La realtà diventa una sfocata presenza dove persistere beceramente nei soliti comportamenti, indugiare nei soliti errori.
Tanto l'importante è altrove.
Il mondo del piccione-filosofo è altrove.
In un'altra dimensione.
Ad essere filosofi, si rischia la vita più che a fare gli stunt-man.